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mercoledì 2 agosto 2017

LETTERA DAL COSTA RICA



La gioia di scrivere e ricevere lettere....  

Dall'Epistolario "Il viaggio è stato bello" finalista al Premio Pieve 2007 dell'Archivio dei Diari di Pieve S. Stefano.




S.Josè,  Costa Rica, 4 settembre 1981

Cara mamma,

eccoci qui in Costa Rica. Siamo arrivati da 8 giorni e già ci siamo sistemati per bene. Ma andiamo per gradi perché ho veramente tante cose da raccontarti e non voglio fare confusione. L’ultima lettera te l’ho scritta dall’isola in Honduras e te l’ho spedita da Tegucigalpa. L’hai ricevuta? Stando sull’isola non potevamo capire il vero spirito dell’Honduras, perché come ti ho detto è abitata da inglesi discendenti dei corsari, ed era quindi un’isola nel vero senso della parola. Invece a Tegucigalpa, dove siamo restati 4 giorni, siamo rimasti scioccati dalla miseria nera della gente, dal numero impressionante di persone, bambini compresi, che dormono sui marciapiedi, dalle centinaia di storpi, paralitici, ciechi, persone deformi, che vanno in giro a chiedere l’elemosina. Pensa l’Honduras ha un reddito medio pro-capite annuo di 100 dollari. Quindi puoi immaginare come vivono. Ma no, non si può immaginare se non si vede. Un po’ come Calcutta o Bombay, ma senza quella spiritualità, solo dolore. Al mercato, appollaiati su enormi bidoni della spazzatura, ho visto due avvoltoi, quelli con una specie di collare rosso alla base del collo. Orribili E tanti bambini  rovistare fra la spazzatura, nudi. Eppure sarebbe una terra ricca e fertile. Ci sono distese e distese di piantagioni (banane, ananas, caffè) ma tutto è nelle mani della Standard Fruit Company, che è una compagnia americana. Dormivamo in un albergo che era un mezzo casino, nel senso di bordello, e una notte abbiamo sentito (c’era solo una parete di compensato come divisorio) un uomo che faceva l’amore (si fa per dire!) con una prostituta bambina e la riempiva di botte e di cinghiate. Terribile.

Siamo partiti per il Nicaragua. Non ti dico che controlli alla frontiera. Tre ore. Ci hanno chiesto di fargli vedere i dollari che avevamo, se no non ci lasciavano passare. Siamo rimasti due giorni a Managua. La città, fra il terremoto del ’72 e i mitragliamenti di Somoza, quasi non esiste più, solo grandi distese d’erba, qualche palazzo semi-diroccato e qua e là le case che sono rimaste in piedi (è rimasta intatta in Plaza Sandino solo una vasca di pietra con dei piccoli coccodrilli ). Ma lavorano tutti come formiche per ricostruirla e c’è nell’aria una bellissima atmosfera di partecipazione ed entusiasmo. Per pochissimi soldi siamo andati a mangiare nel ristorante dell’hotel più di lusso della città, che ha la forma di una piramide,  e ci siamo letteralmente abbuffati. C’era il buffet (!!) e potevamo servirci quante volte volevamo. Mi sono comprata un libro bellissimo sul ruolo della donna nella rivoluzione sandinista. Si chiama “ Todas estamos despiertas “ (Siamo tutte sveglie), è di Margareth Randall, prova a cercarlo da Feltrinelli.

Da Managua abbiamo poi preso un comodissimo pullman con toilette e aria condizionata per S.Josè. Siamo arrivati di mattina presto. E’ una città molto bella, piuttosto all’europea, con bei negozi e ristoranti, la gente vestita bene. Si respira aria di benessere, non come lo intendiamo noi, ma è pur sempre benessere rispetto agli altri paesi dell’America Latina e tutti sono gentili. La gente è orgogliosa di vivere in un paese che è come un’oasi di pace nel centro dell’America Latina. C’è una grossa crisi economica e i prezzi, dicono, sono saliti molto, ma per noi sono sempre bassissimi. Si mangia al ristorante con 1500 lire e si può dormire in albergo con altrettanto.


Il giorno dopo il nostro arrivo siamo venuti all’Università (ora ti scrivo da lì) a cercare Paquito all’Istituto di Filologia. Quasi non mi riconosceva, figurati! Lui è sempre uguale, non è invecchiato per niente, è solo un pochino più magro. Ha detto che non ci poteva portare a casa sua perché il figlio sui è appena sposato e vive lì con la moglie.
Ci ha portato a casa di Dona Carmen, una sua amica e collega “profesora” di storia, che ci ha detto che potevamo stare da lei. Ci ha dato il suo studio, una bella stanza  piena di sole, con un terrazzino, un po’ isolata dal resto della casa, e ci troviamo benissimo.Lei vive lì con una figlia adottiva, una nipote, due cani e un pappagallo parlante (davvero!) e tre galline. In casa non c’è quasi mai e noi ci troviamo veramente a nostro agio. E’ molto gentile e premurosa, un po’ chiacchierona e religiosissima. E’ rimasta un po’ scandalizzata nel sapere che io e Alberto non siamo sposati, ma poi si è abituata all’idea, forse perché noi gliel’abbiamo detto con molta naturalezza e tranquillità. Abbiamo anche conosciuto dona China e 6 dei suoi 10 figli. Ne ha uno di 4 anni, ma è vedova da molto di più (!!). Abbiamo mangiato lì domenica. Paquito ci ha detto che se vogliamo possiamo andare lì tutti i giorni, ma noi non vogliamo disturbare. E’ una famiglia molto simpatica e lei è una donna dolce ed energica nello stesso tempo.

Paquito veniamo a trovarlo qui all’università e mangiamo alla mensa. Qui gli studenti sono molto diversi da quelli italiani: tutti perbenino, le ragazze vestite all’ultima moda (la loro!) con i tacchi a spillo. La politica qui è tabù e mi sembrano tutti abbastanza superficiali. Comunque l’ambiente è allegro, l’università bellissima e piena di verde, dopo pranzo ci sdraiamo sempre sul prato. Paquito mi ha detto che non andrà in Italia a causa dell’inflazione.  Mi ha domandato molto di te e gli piacerebbe tanto che tu venissi qui a trovarci. Gli ho detto che non è molto probabile, ma che non si può mai dire.

Continuo a scriverti da casa, dopo aver mangiato in un self-service vicino all’università. Oggi abbiamo venduto per 240 colones (circa 13000 lire) che qui sono tantissimi. Fra poco andiamo in centro alla posta(chissà se ci sarà la tua lettera) e a ritirare delle foto che abbiamo fatto in Guatemala. Se sono pronte te ne mando una che ho fatto nel giardino di un albergo, C’era uno scimmiotto che si era innamorato di me, mi era salito sulle spalle, mi abbracciava forte  forte e mi dava i bacini con lo scrocchio, Alberto è riuscito a fotografarci. Dai negativi ho visto che ci sono 5 0 6 foto bellissime! Mi hai mandato i costumi?E il materiale  della mostra di Alberto e i miei certificati? E le mie favole? Pensa che combinazione, c’è proprio un concorso di letteratura per bambini, scade il 15 ottobre e io vorrei partecipare con due o tre favole. Alberto farà le traduzioni e le illustrazioni. I vincitori firmeranno un contratto con una casa editrice che pubblicherà i racconti. Bé, io ci provo. Stasera siamo invitati a cena da un’altra nipote di dona Carmen. E’ il compleanno di Alberto, 26 anni!

Tu come stai? Ora che stiamo qui potrò ricevere regolarmente le tue lettere, mi raccomando, scrivimele lunghe lunghe. Scrivimi sempre alla POSTA RESTANTE, perché qui non usano gli indirizzi (!!)ma i punti cardinali, poi ti spiego meglio. C’è un clima strano: fino all’una c’è il sole e si sta bene, poi comincia a piovere. Durerà così fino a dicembre. Poi comincerà la stagione secca. In Italia è quasi autunno. Abbiamo riso io e Paquito parlando della tua caldaia vecchia che fa i botti!

Ora ti lascio. Ti ho scritto una lettera fiume. Spero nel frattempo di ricevere tue notizie.Un bacione grosso grosso. Elvirù






lunedì 29 agosto 2016

LETTERA MAI SPEDITA



Cara Mamma, vorrei tanto che tu leggessi questa lettera, ma so che non sarà così. La leggeranno altre persone, persone sconosciute e lontane, e lo faranno con delicatezza e tatto, senza giudicare. Sono anni che penso con terrore al momento in cui te ne andrai. Sempre stata cagionevole, tu. E arrabbiata. E’ come se con ogni tua parola e gesto volessi farla pagare al mondo. Per quello che non hai potuto fare. Per quello che hai fatto e non volevi. Per quello che ti hanno tolto. Per la sfortuna. Per le disgrazie. La tua vita, raccontata da te, con quella veemenza che ritrovi quando parli del passato, sottolineando gli avvenimenti con una drammaticità degna di Eleonora Duse, è un susseguirsi di avventure, colpi di scena, scherzi del destino, occasioni mancate. Come tutte le vite, credo. Ma tu sei convinta  di essere stata l’unica a soffrire, gli altri hanno avuto sicuramente più sicurezze, più stabilità, più consolazioni. E la tua voce, le tue mani che gesticolano nervose, i tuoi occhi vivi e accesi, quando parli così, seppure ferita a morte, addolorata e delusa, lasciano trapelare la tua grande forza e la voglia, tutto sommato, di vivere ancora a lungo. Per carità, mi rispondi quando ti dico che  camperai sicuramente fino a cent’anni, questa non è vita, mi dispiace deluderti, ma non ci sto, non sembri però molto convinta, anche se cerchi come al solito di fare la prima attrice, in un teatro dalle tende di nylon e chiazze di umidità alle pareti, ma pur sempre un teatro. Così sei tu. Non mi hai mai risparmiato le tue emozioni che, quando ero piccola, mi travolgevano, lasciandomi dolorante e impaurita. E dopo, durante l’adolescenza, mi procuravano attacchi di panico e improvvisi rossori, che mi facevano desiderare di diventare invisibile e muta.  E muta sono stata per anni, tu parlavi, parlavi, ancora adesso, quando provo a dire qualcosa mi parli addosso oppure semplicemente mi giri le spalle e ti metti a fare qualcos’altro. Ma non ci resto male più di tanto. Ti vengo dietro e ti accarezzo  le spalle magre e curve (pensare che camminavi dritta come un fuso, adesso ti sei così rimpicciolita!). Quello che provo ora per te è amore puro, senza incrostazioni di rancori o di rimpianti. Amore che non chiede niente. Tenerezza. Mi basta sapere che ci sei. Anche se non posso venire a trovarti per più di mezz’ora alla volta (hai i tuoi ritmi, scanditi da una disciplina sempre più ferrea, ceni alle 7, poi ti prepari per la notte e dopo BLOB ti guardi “Un posto al sole”). Se mi azzardo a venire in quell’ orario, gentilmente mi rispedisci a casa mia. Sono sempre sola, dici, non mi puoi privare degli unici momenti di svago, facendomi intendere che di quello svago io non faccio parte. E sono finiti i pranzi della domenica da te. Non ce la fai, dici, a cucinare per 3 persone. Non importa, va bene così, niente più spezzatino e involtini al sugo, niente più risotti e minestroni. Se capito per caso all’ora di pranzo, ti trovo seduta al tavolo, con le tue mini porzioni delle cose buone che ancora ti cucini, in pentolini sempre più piccoli, come quelli delle bambole. Pazienza. Allora ogni tanto ti porto io qualcosa, un piatto di lasagne (ci mangi per tre volte!), uno sformato di verdure, una fetta di torta, e quando ti passo il contenitore attraverso la finestra ti brillano gli occhi, non dovevi disturbarti, mi dici, ma si vede che sei contenta. A volte, quando non rispondi al cellulare, ho paura. Forse sei caduta o ti sei sentita male. Forse sei morta. Ma a pensarci bene questo pensiero l’avevo anche da bambina, quando all’improvviso svenivi e io ti mettevo un cuscino sotto la testa e ti facevo annusare l’aceto. Stavo con il fiato sospeso fino a quando non riaprivi gli occhi, le piccole mani a farti carezze sulla fronte, protesa a vedere se ancora respiravi. E quando finalmente rinvenivi, pallida, con un sorriso stanco, io provavo una felicità acuta e traboccante. Eri viva, c’eri ancora, lì per me, non te n’eri andata. E provo la stessa  gioia, forse ancora più intensa, quando mi rispondi, con quel leggero affanno che non è riuscito a cambiare la tua voce giovane, da soprano. E’ vero, in questo ti do ragione, hai una voce bellissima, avresti dovuto fare la cantante. Tu mi abbracci di rado adesso, allora ti abbraccio io e chiudo gli occhi. Ti sento un po’ rigida, è per via dei dolori, dici, ma so che se ti abbandonassi a quell’abbraccio dovresti ammettere a te stessa che hai paura. In questo momento un ragazzo Rom sta suonando alla fisarmonica “Besame mucho”. Ballando con quella musica tu e papà vi siete innamorati, e il vostro amore bello e complicato è durato 18 anni, fino a quella maledetta sera dell’incidente. Da allora ti sei ricordata che esistevo anch’io. Ma era troppo tardi. Un anno dopo me ne sono andata a vivere da sola. Adesso non so cosa darei per dormire nel lettone con te. Te l’ho proposto una volta, di rimanere per la notte. Perché? mi hai detto Non ce n’è ancora bisognopiù in là forse. Più in là.  E mi hai girato le spalle fingendo di trafficare con qualcosa.                           
Ti voglio bene, mamma,  so che la sai, ma te lo devo dire. 
Tua figlia