Visualizzazione post con etichetta Viaggi dell'anima. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Viaggi dell'anima. Mostra tutti i post

lunedì 30 settembre 2019

IL LIEVITO MADRE DI DON MILANI




IL CAMMINO DI DON MILANI
Sono stati scritti tanti libri su Don Milani: il giovane prete, l'uomo coraggioso, l'idealista, il ribelle, il rivoluzionario, il prete scomodo da esiliare... Ogni libro ha voluto sottolineare uno o più di questi aspetti e tutti, più o meno, ci siamo fatti un'idea, a volte frammentata, a volte più completa, di Don Lorenzo Milani. E poi abbiamo letto le sue lettere, quelle scritte da lui e i suoi ragazzi, tradotte in tutto il mondo, che hanno fatto conoscere e diffondere l'essenza dei suoi insegnamenti, le sue idee, le sue battaglie. Tutti conosciamo il suo aspetto,la sua foto ce lo ha reso familiare, insomma lui era uno di noi, che se ne è andato troppo presto ma nella sua breve vita  è riuscito a lasciare una traccia indelebile. Ma mi mancava qualcosa, c'era qualcosa di incompiuto, qualcosa che mi chiedeva di approfondire la sua conoscenza. E l'occasione finalmente è arrivata. Grazie a Viviana, figlia di Maresco Ballini, uno degli alllievi di Don Milani, per me e un gruppo di amici è stato possibile andare a conoscere direttamente, direi quasi di persona, anche se non c'è più, il Priore di Barbiana, facendo l'esperienza bellissima del Cammino di Don Milani, aperto recentemente proprio da Viviana. Perché proprio di un incontro con lui si è trattato e non con la sua immagine. Innanzitutto visitando i luoghi da cui è iniziata la sua avventura spirituale e umana: San Donato di Calenzano e Barbiana. A S. Donato Don Lorenzo, giovanissimo prete, ha vissuto per sette anni creando quella Scuola Popolare che poi avrebbe scatenato contemporaneamente le ire  di Chiesa, Politica e Industria, che si sono sentite minacciate dalle sue proteste, dalle sue domande, dalle sue rivendicazioni di un mondo più equo, di giustizia e di risorse per tutti. A partire dalla cultura, che per lui era il pilastro (attraverso il riappropriarsi della parola) della crescita umana, sociale e politica di ogni persona. E poi Barbiana, la sua Chiesa, la sua Scuola. E fra un luogo e un altro appunto il Cammino, i sentieri, la natura, i boschi, da attraversare a passo lento, in fila, guidati da Lorenzo, ragazzo siciliano che ora vive nel Casentino  e fa il suo lavoro di guida ambientale con gioia e passione e ci ha sostenuti e incoraggiati con il suo sorriso e le sue parole durante il percorso a volte accidentato e impervio.

E per rifocillarci e riposare la notte, abbiamo alloggiato presso l'agriturismo di Pratinovi, antico casale di pietra fra prati, valli e boschi di castagni, accolti da una proprietaria dolcissima come il suo nome, Geraldina, che insieme alla sua famiglia lì vive tutto l'anno gestendo l'attività. Scarponi sporchi di fango, gambe indolenzite, stanchezza e entusiasmo, curiosità, occhi e cuore colmi di bellezza. A San Donato la mattina del sabato avevamo incontrato alcuni dei “ragazzi” della Scuola Popolare: Luana, Mario, Enzo detto Mauro, Giovanni e Andrea dell' Associazione che promuove la cultura e lo spirito di San Donato e Barbiana, organizzando convegni, conferenze e doposcuola per gli studenti nelle modernissima biblioteca di Calenzano. Anziani dallo sguardo vivo e dalla voce ferma ci hanno preso per mano raccontandoci la straordinaria esperienza dell'incontro con Don Lorenzo, che a tutti loro ha cambiato la vita. E poco a poco si sono susseguiti aneddoti di vita quotidiana, ricordi, emozioni che ci hanno fatto quasi toccare con mano l'esperienza delle Conferenze del venerdì: la sala si affollava di giovani venuti anche da altre Parrocchie a quella che possiamo ben definire una Scuola di vita che rispondeva a una sete di sapere che aveva bisogno di essere placata. Come? Con l'ascolto delle esperienze di uomini di cultura, sindacalisti, artisti, venuti a San Donato, su invito di Don Lorenzo, per condividere quello che sapevano e conoscevano, raccontandolo agli altri, facendolo circolare e non tenendoselo stretto per sé...

E poi l'esilio, la punizione, direi la vendetta. Per piegare e sottomettere la forza di un uomo, di un prete, che aveva osato non solo mettere in discussione ma soprattutto smascherare i giochi e intrighi del potere e le sacche di ingiustizia, a voce alta, gridata, senza paura, fino ad essere additato come un pericoloso rivoluzionario. Dopo l'ultimo tratto di Cammino, quando da lontano abbiamo iniziato a intravedere la Canonica e la sagoma del campanile della Chiesa circondate dai cipressi, ci siamo sentiti pervasi da una sensazione di dolcezza e di familiarità. Come ci ha raccontato  Sandra, la figlia di Michele, uno dei bambini della scuola, Barbiana era un non luogo, senza case, a parte la Canonica, senza una comunità, senza un'identità, un luogo di infinito dolore. E di miseria, tanta miseria. Don Lorenzo Milani ha fatto il miracolo di creare una comunità con uno spirito critico che, come il lievito madre, è andato crescendo, generando consapevolezza, appartenenza e dignità. E dopo i racconti dei bambini e della bambina di Barbiana, anche noi ci siamo sentiti parte di questa comunità, così dolce, così ospitale, così affettuosa. Mileno e Fiorella per primi, attorno al tavolo di Pratinovi ci hanno incantato con le loro storie. Fiorella ci ha descritto la miseria nella quale versava la sua famiglia, la fatica di lei bambina che doveva occuparsi degli animali, della stalla, del formaggio e del burro da ricavare dal latte appena munto. E ci ha raccontato quanto sia stato importante per lei essere riconosciuta e accettata da Don Milani e amata come una figlia, riuscendo così a compensare la mancanza di cure e di affetto da parte di una madre sofferente e stanca. E Mileno, nome che sua madre ha voluto dargli comunque  perchè desiderava una bambina che voleva assolutamente chiamare Milena, ci ha fatto sorridere raccontandoci della sua disavventura spagnola, rientrando in Italia in autostop, quando la Guardia Civile  alla frontiera lo ha costretto a cambiare delle sterline al mercato nero, cosa che poi in Francia al cambio si è rivelata molto vantaggiosa, quasi raddoppiando il suo denaro, e del commento scherzoso di Don Milani al suo ritorno.
Ricordi semplici, minuti, di gesti affettuosi, di parole a volte severe, di attenzioni paterne, di un insegnamento a 360 gradi, fatto soprattutto di esempio, di coerenza, di cura. I CARE.
Il motto di Don Lorenzo: mi importa, ho a cuore, mi prendo cura,mi preoccupo degli altri, cercando di  capire le cause, le motivazioni, di sciogliere i nodi e soprattutto di ridare la parola a chi non l'ha mai avuta, per renderlo libero. Fiorella con la sua voce e il suo aspetto sembra ancora la bambina delle foto, gli stessi lineamenti, lo stesso sorriso aperto. “Quella sono io” si è riconosciuta con gli occhi lucidi  ed è stato bello vederla commuoversi durante la visione del documentario che avevamo portato da Terracina, in cui si ascoltava Don Lorenzo parlare e si vedevano i bambini e le bambine  studiare e fare merenda intorno al tavolo sotto il pergolato e i bambini pù grandi tuffarsi nella piscina costruita da loro (dopo aver studiato e realizzato un sistema di filtraggio e drenaggio, come ci ha raccontato Nevio).

E poi la mattina dopo tutti nell'aula della scuola intorno ai tre tavoli, seduti alla rinfusa, come allora. Ad ascoltare. A fare domande. A sentire i racconti dei viaggi all'estero per imparare le lingue, uno dei punti cardine degli insegnamenti di Don Milani, dormendo negli ostelli della gioventù “così conoscerete gente nuova e potrete parlare e confrontarvi” e tornando in Italia in autostop, sempre per lo stesso motivo. Sparpagliati come semi per il mondo. Per poi tornare e germogliare con nuove conoscenze, nuovi saperi, nuove esperienze. Tirando fuori ognuno le proprie predisposizioni, i propri talenti. “Vi vorrei tutti sindacalisti - diceva Don Milani - ma dovrete fare quello che vi riesce meglio.”
E così è stato. Anche se è la politica, con i suoi meccanismi interni, ma soprattutto la Costituzione, uno dei punti di partenza degli insegnamenti di Don Milani ai suoi bambini e bambine. Ed è stato proprio nella piccola aula di Barbiana, lì seduti intorno a quei tavoli di legno, gli stessi di allora, guardando gli alberi dalla finestra e gli oggetti costruiti dai bambini, l'astrolabio, il sistema solare, le cartine, i grafici colorati, le foto in bianco e nero, i libri catalogati sugli scaffali, le rastrelliere per le cartelle, le sedie di ferro saldate dai ragazzi, tutto esattamente come allora, che abbiamo sentito viva e non solo come un'eco lontana la presenza di Don Milani, che sorrideva contento, perché noi eravamo lì a continuare il suo lavoro.
I CARE, proprio quello, parlare, scrivere, condividere, viaggiare, conoscersi, impegnarsi, rispettare, ringraziare, combattere. Il lievito madre è diventato pasta madre e da ora in poi, come è avvenuto grazie ai bambini e alle bambine di Barbiana e ai ragazzi di Calenzano, anche noi ne regaleremo un pezzetto ai nostri amici, alle persone che incontreremo nella nostra vita, sul lavoro, a scuola, perché diventi un pane fragrante, nutriente e saporito, con il proposito di proteggerne sempre una parte perché si moltiplichi e cresca.
La pasta madre di Don Lorenzo Milani. La pasta madre della parola, della cura, dell'impegno, della condivisione, della conoscenza.



Il Cammino di Don Milani è stata un'esperienza risanatrice, di quelle che segnano uno scatto, un punto di svolta, e i racconti di Luana, Mario, Mauro, Giovanni, Mileno, Paolo, Fiorella, Nevio, e me ne scuso, forse qualcun altro che dimentico, sono stati per noi un dono prezioso e unico che Viviana, figlia di Maresco Ballini, scomparso da poco, ci ha voluto fare, anche per condividere la pasta madre che le era stata donata dal padre. Grazie di cuore Viviana, grazie bambini e bambine di Don Milani. Possiamo avere l'onore di considerarci, dopo avervi conosciuti e ascoltati, un po' come vostri fratelli? E sentire, insieme a Fiorella che lo ha ripetuto più volte con lo sguardo ridente che “Don Lorenzo era per noi come un babbo”?



giovedì 30 maggio 2019

GRAZIE RODI


Io amo la Grecia, è cosa risaputa. La considero la mia seconda patria. Da ragazza ho vissuto per tre anni a Firenze con il mio amore greco e con lui ho viaggiato in lungo in largo: la Grecia Classica, le Meteore, la penisola Calcidica, il promontorio di Volos dove i suoi nonni avevano una casa di pietra tutta diroccata, ma dall'incredibile fascino. E poi negli anni ci sono ritornata, con mia figlia o con i miei amici. Ogni volta lo stesso stordimento felice, l'allegria di sentirmi a casa, nella mia famiglia allargata di persone gentili e ospitali che dividevano con me quello che avevano, soprattutto la bellezza. E ogni volta, al ritorno, l'affermazione: questo è il posto più bello che ho visto finora. Come se fosse possibile fare una graduatoria dei luoghi belli che ci hanno preso il cuore. Erano 10 anni che non tornavo “a casa”. Quattro anni fa ho letto online l'intervista a una donna italiana, Gloria, che alla fine degli anni 90 ha deciso di cambiare vita e di trasferirsi in Grecia con la sua bambina, aprendo un B&B nella cittadella medioevale di Rodi. La prima cosa che mi ha incuriosito, a parte la storia di questa donna coraggiosa e sola con la sua bambina, che un po' mi ricordava la mia storia, era il nome che ha dato al suo B&B: "La casa del Frangipane". Io abito a 100 metri dal Castello Frangipane, il nome della casata che lo ha abitato, e nel caso di Gloria, il nome dell'albero che è proprio al centro del suo piccolo giardino. La mia curiosità andava crescendo. Per tre anni, ogni estate programmavo di andare a Rodi, ma all'ultimo momento non riuscivo, per un motivo o l'altro, a partire. Quest'anno, alla fine di aprile, in una giornata in cui mi sentivo particolarmente stanca e demotivata, per una serie di avvenimenti spiacevoli che si erano avvicendati nei mesi precedenti (il tornado che ha devastato Terracina, scoperchiando anche il tetto della mia casa, un trasloco sofferto in un altro ufficio, piccoli problemi di salute, un cambiamento di vita che si sta prospettando in vista della pensione imminente…) ho finalmente deciso di partire per Rodi. Ho scritto a Gloria, la casa era disponibile e tutta per noi, telefonato alla mia amica Ernestina proponendole il viaggio ( insieme avevamo già fatto una vacanza bellissima a Istanbul), prenotato il volo. Tutto in un paio di ore.

Il 18 maggio siamo partite lasciando un tempo umido e piovoso e trovando l'estate.
Rodi mi ha subito stregata. Abbiamo vissuto giornate piene di stupore e di bellezza, di calore, di entusiasmo, di scoperte, di meraviglia, di amicizia. Profumi, sapori, suggestioni, intrecciati in alchimia perfetta. Non mi sentivo una turista, non mi sentivo straniera, mi sentivo perfettamente a mio agio. E non è certo stato un fastidioso dolore al ginocchio, poi rivelatosi una lesione al menisco, a togliermi la voglia di vedere, conoscere esplorare. 8 giorni, pieni, intensi, ricchi. Innanzitutto Gloria, la sua casa, sua figlia Nicole, i suoi meravigliosi gatti e il cane saggio Lumira.
I colori. La luce. L'accoglienza. La gentilezza. Il nostro appartamento, con la scala di legno colorata, le piccole finestre sul giardino e il famoso albero di Frangipane, le piante, la panca azzurra, l'indaco e il giallo delle pareti, le mattonelle fatte a mano, tutto con il tocco abile di Gloria, che sa pitturare, scolpire, restaurare, costruire, con le sue mani grandi e forti (Gloria è una bellissima ragazzona, così mi piace chiamarla). Mi sembra di conoscerla da sempre. E parlando sono venute fuori altre affinità, altre caratteristiche che ci accomunano, una su tutte la curiosità e la voglia di condividere con gli altri le nostre scoperte.
 La nostra vacanza è stata benedetta da una serie di incontri fortunati. Sull'aereo Ernestina ha incontrato un suo vecchio amico musicista, Erasmo, che andava a trovare un comune amico skipper, che Ernestina non vedeva da anni. E quindi la prima sera siamo andati tutti a mangiare in un ristorante appena fuori la Porta di S. Francesco, da Cosmas e la sua famiglia, ristorante che non abbiamo più voluto abbandonare. Cucina che ricordavo, dai sapori speziati e forti, ma molto curata e con qualche novità rispetto a quella che conoscevo, per esempio frittelle di fiori di zucca ripiene di feta e menta, oppure baccalà fritto con una gustosissima sala all'aglio, e pesce fresco tutte le sere. Il tutto a un prezzo massimo di 12 euro a persona. E poi abbiamo conosciuto Davide, grande affabulatore, amico di Gloria, che ci ha incantato e divertito con i suoi racconti, Una persona dolcissima e sensibile, anche lui trasferito da anni in Grecia. E Bruna, simpatica veneziana ex insegnante di tango, ora scrittrice, che ci ha portato a vedere i cavallini di Rodi, razza in estinzione curata da Temistocles e Yorgos,
un vecchio dallo sguardo dolcissimo, che pur con una sola gamba, riesce ad accudire i cavallini, a sussurrare loro, per calmarli e domarli, visto che erano praticamente allo stato selvaggio. Un pomeriggio al tramonto abbiamo visto capre e pavoni, in quantità incredibile, che sembrava facessero la ruota apposta per noi, alternando i loro richiami d'amore. E spiagge deserte, baie incantate, piccoli ristoranti sulla riva, cafeterie in piazzette ombreggiate da platani centenari. Ecco, gli alberi. Nella cittadella alberi e parchi dappertutto. Un verde che ristora, ben curato, protetto. Questa cosa mi ha fatto molto pensare. Gelsomini, bouganville, pitosfori, glicini ancora fioriti. Ma tutto in abbondanza. La città è grande: il castello le mura, i camminamenti, le porte. I primi giorni ci perdevamo, io lenta e un po' claudicante, Ernestina in testa con le mappe, a sopperire alla mia mancanza totale di senso di orientamento.Poi abbiamo imparato le scorciatoie, per vicoli ombrosi senza turisti, stradine di ciottoli, portali coloratissimi e ogni tanto qualche resto, qualche colonna e in lontananza la torre dell'orologio e il minareto della moschea.
Nella parte moderna alcuni edifici costruiti dagli italiani, quando Rodi apparteneva all'Italia, palazzi eleganti, un porto bellissimo con i mulini, e ancora giardini e parchi. L'ultima mattina sono andata al museo archeologico, dai giardini interni curati e profumati. Custodi severissimi mi hanno impedito di fare foto. Sono rimasta commossa da alcuni epigrafi marmoree, trovate nelle tombe, che raffigurano famiglie, madri, padri e figli, uniti in un abbraccio o mano nella mano, piccoli rilievi naif, che risalgono a qualche secolo prima di Cristo, ma incredibilmente moderni.

Fare acquisti è stata una gioia. Regali semplici cercati nei vari negozietti, senza farci tentare da quelli tipicamente turistici.

Gloria
Tutti cercavano di risponderci in italiano, gentili, accoglienti. Ho comprato una mappa antica dell'isola e una civetta in bronzo, da una signora sorridente che ha un piccolo negozio di cose antiche e ci ha portato a vedere le bellissime icone che dipinge sua figlia, con l'orgoglio di madre negli occhi. E il caffè, quello polveroso, da fare alla turca, con un bricco di rame, regalo del mio amore greco.
Io e Ernestina
Avrei ancora tanto da dire, ma devo lasciare che le emozioni si sedimentino: parlare con Gloria, andare con lei e Ernestina in giro in macchina a scoprire le spiagge più belle (i primi giorni abbiamo affittato una macchina, andando un po' alla cieca e scappando da Lindos, affollata di turisti), godere della quiete del suo giardino immergendoci, come in una sorta di cromoterapia, nei suoi colori, dormire in perfetto silenzio in un letto comodissimo, svegliata dal canto degli uccelli, a pranzo mangiare pomodori, feta e olive con quel pane scuro e ancora caldo preso nel meraviglioso forno- cafeteria vicino casa, farsi la doccia nel bellissimo bagno di pietruzze blu messe una a una con amore da Gloria, l'attenzione dei particolari, i biscottini e l'ouzo in frigo, una piccola provvista per cucinare... Cura, gentilezza, amore...Io e Ernestina alla fine ci siamo abbracciate e reciprocamente ringraziate per questo viaggio, così rigenerante e così speciale. E con Gloria ci stiamo scrivendo e la nostra amicizia, che  sembra così antica, è solo all'inizio. Il prossimo anno sarò in pensione e il primo regalo che mi farò sarà quello di stare a Rodi almeno per un mese, portando con me anche la mia piccola famiglia. A presto casa del Frangipane, a presto Gloria.

Grazie Grecia, grazie di cuore.
Efkaristos para poli.

lunedì 10 settembre 2018

FRATELLI DI LATTE







Aprile1982. Dopo un meraviglioso viaggio di un anno con il mio compagno, poi diventato mio marito, che ci ha portati dal Messico fino alla Costa Rica e, per finire, in Perù, arriviamo a Cuzco quando io sono incinta di 5 mesi. Città meravigliosa, ma piena di contrasti: da un lato i lussuosi Hotel e i ristorantini tipici per turisti. Strade pulite, folclore, venditrici di souvenir.
Dall'altro la vita degli indios in casupole di paglia e fango, strade sterrate con fogne a cielo aperto. Miseria. 
La data del parto si avvicina. Il mio ginecologo, che si chiama Darcy Aguirre ed è molto preparato e gentile, mi suggerisce di andare a vedere l'ospedale dove partorirò. E' un edificio verde abbastanza fatiscente. Prenoto una stanza singola, perché, mi suggerisce Darcy, le condizioni igienico-sanitarie delle camerate non sono fra le migliori. Scoprirò poi che la stanza singola è lo spogliatoio delle infermiere. Io comunque sono fiduciosa e non vedo l'ora di tenere fra le braccia la mia bambina. 

Notte di S. Lorenzo, doglie. Il parto si rivela complicato. Cesareo d'urgenza. Anestesista che arriva da Lima con l'elicottero. Per tutta la durata dell'intervento con epidurale mi terrà la mano e mi accarezzerà la fronte. Darcy per tranquillizzarmi mi parla di Sophia Loren. Alla radio, in sottofondo, la musica dei Beatles. Io continuo ad essere fiduciosa. Olivia nasce. E' meravigliosa. Me la mettono subito accanto nel letto. Io e lei abbracciate. Ma c'è un imprevisto: una improvvisa emorragia, shock emorragico. Accanto a me, spaventata, c'è mia madre, che non vedevo da più di un anno. E mio marito. I medici e le infermiere, solerti, silenziose e sorridenti, si fanno in quattro. Pericolo superato. Il mio seno scoppia, ma mia figlia non si attacca, dorme sempre. Ci tengo ad allattarla, l'ho sempre desiderato, non demordo. Ma niente. Rischio la mastite. In Italia forse mi avrebbero suggerito di passare al biberon, ero debole e la bambina doveva nutrirsi. Una giovane infermiera gentile, prova con il tiralatte, poi un'infermiera più attempata prova con un massaggio manuale, per sciogliere l'accumulo di latte. Ricordo l'impegno con il quale insisteva e le sue mani arrossate e screpolate dal freddo (Cuzco si trova a 3300 metri di altezza). Ancora niente. La capo-sala fa una specie di consulto con le altre infermiere e poi si avvicina al mio letto. 
Io sono stanca e un po' triste. 
“Ci sarebbe una soluzione- mi dice- ma lei deve essere d'accordo. “Qualunque cosa, - rispondo io - qualunque, ma fatemi allattare la mia bambina.” “Dovrebbe allattare un altro bambino”. “E qual è il problema?- rispondo io- portatemelo subito. “Sì, ma è un bambino indio, e non era mai successo prima, in questo ospedale, che una donna bianca allattasse un bambino indio”. 

Mi portano un bambino dalle gote rosse, con il tipico cappellino  con il paraorecchie. E' bellissimo. Lo accolgo fra le mie braccia e me lo metto al seno. E' molto grosso e vorace, si attacca subito. Sua madre ha avuto un parto più difficile del mio e non ha latte. Lo allatterò per tre giorni, insieme a mia figlia. Olivia ha un fratello di latte. L'ultimo giorno, prima di essere dimessa dall'ospedale vedo affacciarsi alla porta della mia stanza un gruppo di indios, scalzi, con i ponchos scoloriti e stracciati. Sono i familiari del bambino, venuti a ringraziarmi. Un sorriso muto, riconoscente e poi “ Gracias Senora, gracias, que Dios la bendiga” Queste parole, semplici e amorevoli, mi accompagneranno per tutta la vita. E ringrazio anch'io: Darcy, l'anestesista dalle mani materne, le dolci infermiere che non si sono arrese, la caposala, che mi ha fatto quella proposta per lei così inusuale, e il piccolo bambino indio che mi ha fatto sperimentare per la prima volta la gioia di un contatto così intimo e colmo di amore. C'è stata cura, c'è stata accoglienza. Io ero la straniera e mi hanno aiutata. Io avevo bisogno e nello stesso tempo ho potuto aiutare. Con naturalezza, in maniera istintiva, come dovrebbe accadere fra esseri umani, figli della stessa terra. Per questo le parole respingimento, schedatura, pacchia, mi fanno male, molto male al cuore.
Pochi giorni fa ha fatto il giro della rete l'immagine di una poliziotta americana che allatta al seno il bambino di una giovane clandestina messicana che è stata imprigionata. Naturalmente quell'immagine mi ha riportato alla mente e al cuore il fratellino di latte di mia figlia. Chissà dove sarà adesso, chissà come starà. L'unica cosa che so è che l'11 agosto ha compiuto 36 anni. Spero che il mio latte gli abbia portato fortuna. E che stia bene e in buona salute. Glielo auguro con tutto il cuore. E lo ringrazio per averci aiutate.

lunedì 2 luglio 2018

SI' VIAGGIARE (2)


A Essaouira, a camminare sui bastioni, al vento, con una veste bianca, e ad Amherst nella 
casa di Emily Dickinson ad accarezzare la sua scrivania, e poi a Lisbona nell' Alfama
a mangiare sardine e pasticcini al cocco, e ancora a perdermi con lo sguardo sul Gran Canyon, stordita da tanta vastità e bellezza, e a Ellis Island, a baciare la terra dei miei antenati migranti, poi tornati, con qualche parola nuova strascicata in bocca, e a Itaca di nuovo in quella piccola chiesa, e ad Amsterdam a vedere la stanza di Etty e a camminare lungo il fiume, cercando di cogliere la bellezza che lei coglieva con il suo sguardo, e poi a Port Angeles nella casa di vetro di Raymond, mio maestro e amico, dove lui ha chiuso gli occhi dopo dieci anni dieci di felicità perfetta e la certezza di essere stato amato, e nella casa museo di Georgia,dalla lunga vita, in quel
deserto di luce, a vedere i suoi fiori, sì, potrebbe bastare, ma forse no, non ancora, ecco il giardino di Virginia e quel fiume dove ha camminato con i sassolini in tasca, la tomba di Marguerite, solo per ringraziarla, la tomba di Chagall l'ho già visitata, in un giornata di sole a Saint Paul de Vence, tenerezza pura, così spoglia. Adesso sì, potrebbe bastare. E isole, isole, mare e spazio intorno, a tutto tondo, Mi sto preparando, sto preparando le ali. Troppi anni, troppi, senza questa magia. Il viaggio deve essere lento, il viaggio deve durare.

E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E che cos'è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra. 

(Ultimo frammento, di Raymond Carver)




martedì 17 aprile 2018

LASCIARE ANDARE

Ho fatto una cosa, Mamma, quando ero a Torino. Ho camminato molto in quei giorni, cercando le tue tracce: Via Po, Via Roma, via Lagrange. E i viali e le piazze, quelle con i cavalieri. Fino al fiume. E in fondo la Gran Madre di Dio. Tu facevi tutti i giorni a piedi quella strada per andare al lavoro quando eri ragazza, prima di Papà e tutto il resto. E spesso, mi hai raccontato, ti fermavi a pregare in quella chiesa. Una chiesa non bella secondo me. Pesante e un po’ fredda. Ma era la tua chiesa e tu lì hai pregato e pianto. Allora ci sono andata. Me la immaginavo più grande, invece è raccolta. Al centro c’è una balaustra di marmo che delimita uno spazio tondo, pieno di monetine. In corrispondenza, su in alto, c’è la cupola. Allora sai cosa ho fatto? Ho cercato di visualizzare tutto il dolore che tu hai pianto, e quello mio, venuto dopo, fino a dargli una forma di enorme fagotto, ingombrante, che ho depositato al centro della balaustra. E poi ho immaginato di dargli fuoco a quel fagotto e di ridurlo in cenere. Il fumo sarebbe volato su su oltre la cupola e sarebbe svanito nell'aria. Dolore dissolto. Tutto. Quello mio e quello tuo, quello dei nostri avi e quello dei nostri discendenti. Un rituale di purificazione. La fine della sofferenza. Prima di andarmene ho benedetto la chiesa e ho guardato per l'ultima volta le immagini dei santi. Appena uscita mi sono sentita più leggera. 
Bisogna chiuderle certe porte, Mamma. E lasciare andare i morti, anche quelli che abbiamo amato. E le cose morte. Altrimenti moriamo anche noi con loro. E a chi serve? A nessuno.

Mi viene in mente una delle scene finali di quel film meraviglioso e poetico che è “Lezioni di piano”. La protagonista se ne sta andando via con il suo amore e il suo pianoforte su una barca. Il mare è minaccioso, fa paura. La barca sta per riempirsi d'acqua. Bisogna sacrificare il pianoforte, troppo pesante. Lei è muta, non può gridare, sul suo volto il dolore immenso del distacco dallo strumento che le ha permesso di esprimersi, al posto della parola. Il pianoforte viene gettato in acqua. Lei rimane impigliata con un piede in una delle corde che lo legano e va giù. Insieme a lui. Quasi fosse diventato il suo vero e unico amante, dal quale non vuole e non può separarsi. Può decidere se morire, laggiù, nel profondo abisso (e quasi sembra che sia questa la sua scelta, morire), oppure vivere. E quando ormai il respiro si è quasi esaurito, con uno scatto si divincola verso la superficie, su su,verso la luce, verso la vita. Ecco Mamma, il viaggio a Torino mi è servito a questo. A divincolarmi da quella fune e a guizzare libera sulla superficie dell'acqua, nuotando a bracciate vigorose, io che non so quasi nuotare. Verso la riva.

domenica 22 ottobre 2017

EL POETA (A Dionisio Hernandez Ramos)









Succede, dopo trentacinque anni, di risentire quella poesia, che nel frattempo è diventata famosa, come il suo autore. 1981: un lungo viaggio durato un anno  e mezzo fra America Centrale e Perù. Un viaggio che non potrò mai dimenticare perché quando sono tornata non ero più la stessa. I primi due mesi li abbiamo trascorsi in Messico. E venti giorni a Oaxaca, una bella città coloniale a 1500 metri di altezza, con un clima mite, ventilato e asciutto. Stavo imparando la lingua e tutti  i giorni leggevo nella piazza principale, seduta a un tavolino del bar, un quotidiano che si chiamava “uno mas uno”. A pranzo andavamo, io e il mio compagno,  a mangiare un ottimo filetto alla tampiquena con guacamole, una gustosa salsa di avocado. La vita scorreva serena. Il nostro albergo si chiamava Hotel Principal. Era di stile coloniale, con le stanze che davano su un grande patio. I vicini di stanza erano un padre e una figlia italiani. Lui faceva il pittore e si era trasferito a vivere in Messico. la figlia aveva 18 anni ed era andata ad assisterlo perchè era stato morso da un cane e la ferita non si rimarginava. Lei si chiamava Olivia, era piccola e scura di carnagione e il primo giorno, visto che parlava un castigliano fluente, l’avevo scambiata per una messicana. Nell’altra stanza c’era lui, “el poeta”, un piccolo indio zapoteco, dalla faccia incredibilmente rugosa, che subito fece amicizia con il mio compagno. La sera se ne stavano nel patio a bere una birra dietro l’altra, mentre io chiacchieravo con Olivia, che stava imparando a tessere della lana bianca con un rudimentale telaio che teneva con i piedi, sperando di fare dei tappeti che poi avrebbe venduto ai gringos. Il cielo al tramonto diventava di un rosso porpora che poi sfumava nel viola. Erano momenti magici che meritavano il silenzio. Infatti per qualche minuto nel patio tutti tacevano, per non disturbare quello spettacolo di assoluta perfezione, per poi riprendere a parlare quando il cielo diventava blu cobalto.


Una sera arrivò una turista francese che abitava a N.York e aveva un negozio d’arte. Il giorno dopo andammo tutti in un villaggio dalle strade di terra battuta a trovare Teodora, un’anziana india che ancora faceva delle ceramiche di terracotta nera secondo un’antica tradizione azteca. Arlette, così si chiamava la francese, ne ordinò un grosso quantitativo, a un costo irrisorio, per poi rivendere i vari pezzi  nel suo elegante negozio a Manhattan a un prezzo centuplicato. Al ritorno Dionisio, el poeta, ci invitò  a bere qualcosa in un locale che avevano aperto da poco e si chiamava “El sol y la luna”. Era una serata tiepida. Nel giardino interno, profumato di fiori tropicali, avevano sistemato dei tavoli e delle panche per noi che volevamo stare per conto nostro all’aperto. Dionisio quella sera bevve parecchio e a un certo punto, come un saltimbanco si mise in piedi su un tavolo e incominciò a declamare le sue poesie. Mi ricordava il vecchio Ungaretti quando leggeva i brani dell’Odissea, per la mimica e le innumerevoli rughe. Eppure Dionisio non era vecchio, avrà avuto una quarantina d’anni, ma il suo volto, scolpito e intenso, sembrava il tronco di una vecchia quercia. Io ancora non capivo tutte le parole, ricordo solo che in quelle poesie, intense e sofferte, l’anima di Dionisio emergeva luminosa e chiara e lui si trasfigurava, fin quasi a diventare bello. Fra tutte le sue poesie, una mi aveva particolarmente colpita. Parlava della sua bambina, nata da una relazione con una turista americana, che ora viveva con la madre a Miami e lui poteva vedere solo una volta l’anno. Ricordavo più o meno il senso. Diceva che tutti i giorni della settimana erano vuoti e senza senso e solo uno risplendeva, perchè in quel giorno era nata lei. Ecco, in tutti questi anni ho pensato spesso a quei giorni, a Olivia ( a mia figlia ho dato il suo nome) e a "el poeta". Le parole di quella poesia in qualche modo avevano lasciato in me una traccia luminosa. Finché oggi l’ho trovata su internet, anzi ho trovato proprio lui “el poeta” che nel frattempo è diventato famoso, mentre declama proprio quella poesia. Lui è vecchio vecchio e la sua voce trema. La sua poesia, quella poesia è intitolata “ Viernes”. E lui, el poeta è Dionisio Hernandez Ramos. Ascoltandolo non ho potuto fare a meno di commuovermi  e di pensare che certi incontri sono veramente meravigliosi, se non li lasciamo andare. Dionisio  se n'è andato il 3 agosto di quest'anno. Anche questo l'ho scoperto oggi. Ecco  "Viernes"                         
 
Me gustan los viernes

porque la vida de la semana

agoniza en esas horas

y expira con frenesí

de poseso alcohólico

Y también

porque naciste tú

en viernes

sin sol

con cielo gris

triste

No me gustan los sábados

domingos    lunes    martes

miércoles o jueves 

porque nada pasa
 ni naciste tú


 

giovedì 7 luglio 2016

LA LUNGA NOTTE DI SALINA CRUZ





Quando un amico mi ha parlato di Salina Cruz, non ho potuto fare a meno di ricordare. Che strano, dopo più di trent’anni basta girare un interruttore e il ricordo appare, nitido e colorato, come se nel frattempo non fosse successo niente e non fosse passata una vita. A quel posto non ci avevo più pensato. Troppo brutto. Troppo caldo. Troppo lontano dalla bellezza che avevamo attraversato e che ci avrebbe accompagnato per il resto di quel viaggio.



Siamo arrivati a Oaxaca nel Maggio dell’81,
dopo alcuni giorni trascorsi a Città del Messico e un paio di notti a Vera  Cruz, città insopportabilmente afosa. Il viaggio era appena cominciato. Sarebbe durato 18 mesi. Oaxaca ci piacque subito. Prima di tutto era fresca e poi tranquilla, dopo la bolgia di Mexico City. L’albergo era carino, si chiamava Hotel Principal. Era coloniale, con il patio interno e le stanze dai mobili scuri. La notte eserciti di cucarachas sbucavano dagli interstizi, veloci come la luce. Dopo un raccapriccio iniziale, in poco tempo mi ci abituai. Facevo finta di non vederle e, unica precauzione, scuotevo le scarpe prima di mettermele. Dionisio abitava nella stanza accanto alla nostra. Era un indio zapoteco, basso e dai lineamenti marcati, grande bocca e  naso da pugile. Brutto, molto brutto. Ma quando parlava restavi incantato. Lui era di Salina Cruz, ma viveva lì da un po’ di tempo, stava scrivendo un libro di poesie. Dionisio era un poeta. Lui e Alberto fecero subito amicizia. Parlavano e bevevano birra nel patio, mentre io riposavo dopo i lunghi giri per la città. Ancora non capivo completamente il castigliano, stavo imparando, e quel parlare fitto fra uomini mi faceva sentire un po’ esclusa. Ma anch’io mi ero fatta un’amica, Olivia, una ragazza fiorentina di 18 anni, scura e piccola come una india, con le treccine  attorcigliate intorno alla testa. Viveva nella stanza più grande dell’albergo, con suo padre pittore, che stava dipingendo dei murales in una chiesetta del luogo. Una sera andammo a cena tutti insieme in un locale caratteristico che si chiamava “El sol y la luna”. C’era anche Arlette, un‘antiquaria francese che viveva a N.York. Era venuta lì a comprare da un’artigiana del luogo, che si chiamava Teodora, delle preziose ceramiche nere, fatte con un sistema di cottura che risaliva agli atzechi, che avrebbe pagato pochi soldi per poi venderle nel suo lussuoso negozio di Manhattan a un prezzo salatissimo. Arlette era una donna sui quaranta, molto femminile, capelli a caschetto, sguardo vivo e un corpo minuto che muoveva con eleganza. Dionisio non le toglieva gli occhi di dosso. La notte sentimmo lui e Arlette fare l’amore nella stanza accanto fino all’alba.
Una sera Dionisio, mezzo brillo, ci declamò in piedi su uno dei  tavoli de “El Sol y la luna”, una poesia sulla sua bambina che viveva a S. Francisco. Fu in quel momento, guardando quel piccolo poeta zapoteco sciogliersi in lacrime mentre ci raccontava lo struggimento della lontananza, che sentii forte dentro di me il desiderio di iniziare a scrivere  poesie. La calma di quei primi giorni a Oaxaca, fu in qualche modo interrotta da un avvenimento spiacevole. Un pomeriggio, mentre vendevamo la nostra mercanzia (orecchini, foulards, cravatte di seta) fummo fermati da due poliziotti che ci fecero passare l’intera notte nell’ufficio di polizia locale, fra spacciatori e prostitute bambine, dando ogni tanto una toccatina alla pistola che tenevano a guisa di cow boys in un fodero attaccato alla cintura. Ci sequestrarono la merce e ci estorsero gli unici dollari che avevamo, circa una sessantina. Per fortuna in albergo ci erano rimaste una ventina di cravatte. Dionisio la mattina dopo ci accompagnò in Tribunale, un grosso edificio rosa brulicante di gente e, dopo un’oretta, le aveva già vendute tutte, a 10 dollari l’una, ai suoi amici impiegati, archivisti o giudici. Lui tenne per sé una cravatta rossa, con un piccolo giglio di Firenze ricamato sopra. Quella cravatta rese l’amicizia fra lui e Alberto quasi indissolubile. Una sera, dopo la 5a birra, con gli occhi lucidi, quasi abbracciato ad Alberto (se non avessi sentito con le mie orecchie le sue prodezze da amante avrei pensato che era innamorato di lui!) ci disse: “Quando andate via da qui fermatevi a Salina Cruz, vi do le chiavi della mia stanza. Mi casa es tu casa, hermano!” e via con la 6° birra! Guardammo sulla nostra “Guide du Routard”, Salina Cruz era citata solo come una cittadina di passaggio. Nessuna rovina, nessuna attrattiva, niente. Arrivammo di sera tardi. Non sapevano del nostro arrivo, “el poeta” non li aveva avvertiti. Ci accompagnarono alla stanza, ubicata in una piccola dependance affacciata sul patio, guardandoci in cagnesco mentre aprivamo la porta con la chiave di Dionisio. La stanza era in completo abbandono: un letto matrimoniale sfatto chissà da quanto tempo, lattine di birra vuote, piante secche, posacenere colmi di cicche, biancheria sporca. Ormai era notte, la prima corriera ci sarebbe stata solo la mattina dopo, dovevamo fermarci lì. Il bagno era nel patio. C’era solo il wc e una grande vasca-serbatoio colma d’acqua, per versarcela addosso i soliti gusci di noce di cocco. Non osai lavarmi i capelli e poi avevo finito lo shampoo. Uscimmo a cercare qualcosa da mangiare. Trovammo solo un Mc Donald e ordinammo due enormi cheese burger e una birra. La città era deserta, tutti i negozi chiusi, solo il neon di qualche vetrina di abbigliamento, con abiti alla moda (!) su manichini con la parrucca bionda. Un’unica cafeteria, piena di uomini. Vecchie Cadillac piuttosto malandate parcheggiate lungo le strade. In lontananza, le ombre di piccole colline secche. Dove eravamo capitati?. E perché Dionisio, che aveva nel cuore la bellezza, ci aveva spinto a venire in un posto tanto brutto? La notte non chiudemmo occhio. Un’afa umida e appiccicosa avvolgeva la stanza, nonostante le finestre spalancate dalle quali, attraverso le zanzariere strappate, entravano a frotte le zanzare. Ci ronzavano a famiglie sulla faccia. Alberto si era messo un foulard di seta sul viso, io il lenzuolo, ma le puttane ci entravano nelle orecchie, fra i capelli, ci pungevano attraverso la seta e la tela ruvida del lenzuolo. Un incubo. Non c’era neppure un goccio d’acqua da bere, solo una mezza lattina di coca cola tiepida, che razionammo a sorsi infinitesimali, fino all’alba. Non avevamo scampo. Bisognava aspettare il giorno e scappare via da lì, da quella brutta stanza di quella brutta città che si chiamava Salina Cruz e non aveva motivo di esistere. Il resto del viaggio, dopo una nottata così, fu una meraviglia. Dionisio non l’abbiamo più rivisto. Ho cercato il suo nome su internet. E’ diventato un poeta famoso. Chissà se quella poesia triste sulla sua bambina è stata mai pubblicata. Io spero di sì, perché era bellissima.







La notte più calda
a Salina Cruz
a casa del fratello del Poeta
andate pure
ci aveva detto Dionisio
mi casa es tu casa
grato per la cravatta
che gli avevamo regalato
ma non era vero
ci hanno dato una stanza
in disordine
libri dappertutto
e riviste impolverate
il letto era sfatto
le zanzare scendevano in picchiata
cercavamo di ripararci la faccia
ma ci pungevano le orecchie
la notte più lunga
senza refrigerio
senza acqua
al mattino un saluto svelto
e via verso lo Yucatan
quando il sole era già
alto
su un autobus di lusso
con l’aria condizionata
abbiamo dormito fino
all’arrivo
altri colori
ancora più brillanti
di mais umido di pioggia
e chiese azzurre e viola
da aggiungere
alla tavolozza
era l’inizio
di una nuova storia.



  Nel frattempo
persone tante
uomini e donne
coppie e amanti
bambini e forse cani
raramente gatti
hanno dormito in quelle stanze
nulla è rimasto fermo
neanche una cesura
un’assenza di respiro
un errore di secondi
dimenticati dal tempo
niente di tutto questo
l’Hotel Principal
ha continuato a vivere
senza di noi
le nostre valige
trasportate altrove
in altri viaggi
le nostre vite a zonzo
ombre liquefatte
ormai separate da due mari.