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mercoledì 19 aprile 2017

LA RAGAZZA DEGLI ANNI '70 (Dal libro "Niente da dichiarare")





Di quegli anni ricordo la fretta, di vivere, conoscere, sperimentare, in una frenesia di corpo e mente, mai stati così uniti.

Nell’agosto del ’70 la morte di mio padre in un incidente d’auto, ha posto fine alla mia adolescenza dando l’avvio, con uno scossone imprevisto e terribile, alla mia giovinezza. Avevo 18 anni.

Quello stesso anno è arrivato nel nostro Liceo un nuovo insegnante di lettere. Era giovane, anche se aveva i capelli già brizzolati, appassionato e di sinistra e in pochi mesi ha raso al suolo tutte le mie certezze. I miei compagni lo guardavano estasiati, pendevano tutti dalle sue labbra, invece io non ero ancora pronta ai suoi fiumi di parole, ai cineforum sui film di Eisenstein, agli spettacoli teatrali all’Eliseo, alle pagine e pagine di appunti che ci dettava a ritmo serrato, non ero pronta alla veemenza e alla passione con le quali quasi ci costringeva a crescere, a ragionare con la nostra testa, a scrollarci di dosso modelli superati e obsoleti, a vivere. Ancora conservo i fogli protocollo con i miei temi, che lui regolarmente stroncava, a colonne infuocate, credendo forse di scuotermi. Solo anni dopo mi sono resa conto di quanto la sua venuta nella conformista, annoiata IV C, sia stata in qualche modo il prologo di quello che sarebbe avvenuto dopo, almeno nella mia vita. Ma confesso di averlo in qualche momento detestato, lui, il professore: era troppo per me, io ero pigra, lenta, e la furia delle sue parole, il suo impeto, invece di spronarmi mi rendevano ancora più pigra e maldestra. Ma aveva piantato in me piccoli semi di consapevolezza e ribellione, che non hanno tardato a dare i loro frutti. E di questo io gli sarò per sempre grata.



 Primo frutto: i viaggi.
Io e Lena, la mia inseparabile amica, siamo state le prime a Terracina a viaggiare in auto-stop. Anche lei aveva perso il padre da poco e la nostra condizione di orfane forse ci aveva reso più temerarie e curiose: niente o nessuno ci poteva fermare, neanche le nostre madri, piuttosto preoccupate. Abbiamo girato in lungo e in largo per il Sud (Puglia, Calabria, Sicilia, più volte la Sardegna che era la nostra preferita), chiedendo passaggi ad automobilisti sempre gentilissimi e a qualche camionista che ci caricava su volentieri per fare il viaggio in compagnia. Alloggiavamo quasi sempre negli ostelli e, con i pochi soldi guadagnati lavorando come baby sitter o  commesse, facevamo viaggi lunghi mai meno di un mese. Allacciavamo amicizie, che sarebbero poi durate anni, con molti degli improvvisati compagni di viaggio che si  univano a noi lungo il percorso. Ci è capitato di dormire in stazioni, tipografie, case diroccate, garage, spiagge, giardini pubblici, infilate nei nostri sdruciti sacchi a pelo a mummia. Il mio era rosso, a fiorellini, l’avevo comprato a Porta Portese. Non ci è mai successo niente di spiacevole, a parte quella volta che a Cagliari ci siamo beccate le pulci. Probabilmente eravamo temerarie e prudenti nello stesso tempo e riuscivamo a schivare le situazioni e le persone pericolose. Ma l’imprevisto, la sorpresa, l’avventura, erano sempre dietro l’angolo. E non abbiamo mai avuto paura. Ci lasciavamo guidare da una fiducia illimitata nella vita, nella gente, nella natura, che probabilmente ci ha sostenute e protette. Non potrò mai dimenticare il profumo della macchia mediterranea quando stanche, dopo una notte insonne sul ponte della nave, sbarcavamo a Golfo Aranci, con gli zaini sulle spalle carichi fino all’inverosimile e lo sguardo acceso di stupore e meraviglia davanti a tanta bellezza: nell’aria tersa dell’alba tutto era rosa, nitido, perfetto. Se dovessi scegliere un’istantanea, solo una, per ricordare quegli anni, sarebbe questa.




Secondo frutto: l’indipendenza.

Nel ’72, dopo gli esami di maturità, avevo deciso di trasferirmi a Roma per iscrivermi a Scienze Politiche. Ma qualcosa non mi convinceva del tutto. Avevo voglia di allargare i miei orizzonti. Una telefonata di Alberto e Augusto, miei compagni di liceo, ha tagliato la testa al toro. Stavano andando a Firenze per iscriversi all’Università. Dopo una notte intera a parlare con mia madre, che ha avuto la generosità di lasciarmi andare, sono partita con loro. In pochi giorni abbiamo trovato una casa colonica in periferia e  siamo andati a vivere insieme. Io, sola con due ragazzi. Faceva tanto Jules e Jim, anche se non c’era del tenero con nessuno di loro. La casa era freddissima, grande, a due piani. Alberto aveva scelto la stanza al piano terra, che aveva dipinto di giallo. Io quella al piano di sopra, che si affacciava sull’aia, con le pareti di un arancione brillante. Augusto invece era andato a stare nella stanza in fondo al corridoio e l’aveva pitturata completamente di nero, compreso il grande soppalco. Fuori c’era un campo piantato a bietole e carciofi e i vicini spesso ce ne regalavano grandi borsate. Io ero vagamente attratta da Alberto. Era piccolo e mingherlino, con le lenti da miope che lasciavano intravedere gli occhi grigio-azzurri e aveva delle dita lunghe e nervose che muoveva con grazia mentre parlava con voce bassa e calma, di musica, letteratura, arte, politica, cinema, e molto altro ancora. Aveva una cultura incredibile per la sua età e io l’ammiravo tantissimo. Lo ascoltavo estasiata, ma con lui non riuscivo a parlare.  Neanche al Liceo ci ero mai riuscita, ma in V, verso la fine dell’anno scolastico, un giorno lui mi aveva proposto di iniziare uno scambio epistolare e da quel momento il nostro legame, anche se sempre molto silenzioso da parte mia, era diventato più intenso. Ancora le conservo quelle lettere  (non riesco a staccarmi da certi ricordi!), a qualcuna erano allegati dei cartoncini disegnati con la china e gli acquarelli. Alberto sapeva fare tutto, disegnare, cantare, suonare. E imparava le lingue ( persino il polacco!) con estrema facilità. Io invece ero piuttosto insicura e credevo di non essere capace a fare niente. Con Augusto invece chiacchieravo molto, eravamo amici, spesso andavamo al cinema (Alberto rimaneva in casa a leggere o a suonare), poi ha conosciuto una ragazza che studiava matematica e da allora se ne stava interi pomeriggi rintanato con lei nella stanza nera ad ascoltare la musica dei Genesis a tutto volume. Niente più cine.

Con l’arrivo di Angela, che si è subito messa con Alberto, ormai si erano formate le coppie. Qualche malinteso, cose di poco conto, esigenze diverse, e dopo un po’ le nostre strade si sono divise. Abbiamo lasciato tutti la casa colonica.

Ho trovato un appartamento in centro, nel quartiere di Santa Croce,
con delle tipe piuttosto squinternate. Avevo una stanza di passaggio, lunga e stretta, non c’era né doccia né bagno e allora andavo ai bagni pubblici dietro casa. Ricordo lo squallore: mattonelle bianche da obitorio, lampadine fioche, pulizia approssimativa, qualche barbone con le buste di plastica che aspettava il suo turno. All’ingresso mi davano una saponetta Lux e un asciugamano sdrucito, che io mi guardavo bene dall’adoperare. Poi entravo in una piccola stanza da bagno, mettevo i miei vestiti su uno sgabello, riempivo la vasca dallo smalto scrostato e me ne stavo immersa nell’acqua calda fino al collo per una buona mezz’ora. Ecco, quello era un lusso che mi concedevo una volta a settimana.

La mia quota per l’affitto era di 12.500 lire, per un pasto alla mensa ne spendevo 300, il biglietto del cinema costava 150 Lire. Spesso passavo le serate in un cinema d’essai che si chiamava Alfieri a fare scorpacciate di film meravigliosi. Proprio lì credo, in quel cinema fumoso e freddo, è nata la mia grande  passione per il cinema. Un mese fa, a Firenze, mi hanno detto che l’Alfieri è stato chiuso e che probabilmente al suo posto verrà aperto un super-mercato.

Una delle mie coinquiline era inglese, si chiamava Pamela Smith (nome molto originale per un’inglese!) e stava con un ragazzo pugliese che, quando facevano l’amore, lanciava delle urla pazzesche. Lei usciva dalla stanza solo per farsi lo shampoo due volte al giorno (aveva i capelli che grondavano olio!) e per riscaldarsi una minestra Campbell sempre nello stesso pentolino di smalto, che non sciacquava mai.

Nel frattempo io avevo trovato lavoro come baby sitter e dato i primi esami.

Ormai la stanza di passaggio era diventata un incubo. E una delle mie compagne di casa aveva avuto una bambina e stava per sposarsi. Ho traslocato di nuovo, sempre in Santa Croce, in una casa molto carina, ma senza riscaldamento. Ecco, un altro ricordo di quegli anni è legato al freddo che ho patito. Così tanto da ammalarmi un inverno, in maniera piuttosto grave.

Per un po’ sono stata da sola, poi è venuta a vivere con me una mia compagna di facoltà, di San Gimignano. Davo esami su esami e sono riuscita ad ottenere il pre-salario. Mangiavo tutti i giorni alla mensa universitaria e per vestire non spendevo quasi niente (eskimo, zoccoli, borse di cuoio della Tolfa e maglioni slabbrati) e ogni volta che uscivo con mia madre lei mi diceva con voce tremante. “ Ma dimmi Elvira, lo fai apposta, vero, a vestirti così…. per mettermi a disagio….?”.

Nel ’76 ho iniziato una storia con Pantazis, un ragazzo greco che studiava Architettura. Lui è venuto subito a stare da me, occupando quasi tutto lo spazio della mia stanza con il suo enorme tavolo da disegno. Abbiamo adottato un bastardino nero di nome Ugo, che ci portavamo dappertutto, all’Università, alla Mensa e nei nostri numerosi viaggi in Grecia. Per tre anni, finché è durata la nostra convivenza, non ho praticamente dormito. E non ho messo mano alla tesi. Pantazis aveva l’hobby della fotografia e passavamo le nottate a  sviluppare e stampare foto nello sgabuzzino che avevamo trasformato in camera oscura. Io gli facevo da modella, abbiamo vinto anche qualche premio. Una volta siamo andati per una premiazione a Boves, un bellissimo paesino sulle colline in provincia di Cuneo, ricordo che avevamo partecipato con delle foto molto intense in bianco e nero, in quella che ha vinto c’ero io seduta a una scrivania con dei libri sopra e una scritta:”E DOPO?”. Naturalmente ci ponevamo il problema del dopo Università, ma in maniera scanzonata e allegra, un po’ incosciente forse, ed eravamo comunque fiduciosi che avremmo trovato la nostra strada e realizzato i nostri sogni.

Di tutte quelle foto purtroppo me ne sono rimaste poche. Ne ho una, incorniciata in salotto, è del mio seno. Sembra una scultura, per via delle ombre e del chiaro scuro. Un piccolo vezzo per ricordare la mia gioventù.



Terzo frutto: la politica.

Contagiata dai fermenti di quel periodo, avevo deciso, sfidando la mia insicurezza, di fare anch’io attività politica. Una mattina mi sono presentata timidamente alla segreteria della sezione del PCI dietro casa mia. Una ragazza piuttosto antipatica mi ha fatto il terzo grado. Voleva sapere tutto di me. Mi ha chiesto quando avevo avuto “la chiamata”. Comunque le devo essere piaciuta perché mi ha detto di presentarmi la domenica successiva per la distribuzione dei giornali. E per un bel po’ di tempo ogni  domenica mattina ho fatto rampe e rampe di scale nel quartiere di Santa Croce, fra case maleodoranti e palazzi principeschi, per distribuire l’Unità. C’è stata poi la parentesi  della “Scuola di Partito”, che è durata solo un inverno. Ci incontravamo nella Casa del Popolo di Piazza de’ Ciompi. Una volta ci ho portato anche mia madre, che ci si è trovata  subito a suo agio,  forse più a mio agio di me. Ma poi la cosa è andata scemando ed è finita lì.

Ogni tanto arrivava da Terracina, per partecipare a qualche congresso del PCI, il nostro amico Vincenzo, che eravamo orgogliose di ospitare nello sgabuzzino senza finestre che avevamo adibito a stanza degli ospiti, fra scarpe, valigie e giornali vecchi. E in quello stanzino buio e umido abbiamo ospitato per lunghi periodi amici senza casa o  semplicemente di passaggio.

Durante il festival Nazionale dell’Unità del ’75, alle Cascine, io e Lena, che nel frattempo mi aveva raggiunta a Firenze, abbiamo preparato per i compagni centinaia e centinaia di panini con i wurstel. Ricordo l’allegria e lo spirito di solidarietà, ore e ore in piedi, vicino al fuoco, a ridere e scherzare. Mi sentivo importante, un piccolo tassello in un mosaico colorato e brillante ed ero piena di energia, avevo tutta la vita davanti. Il mondo stava cambiando e noi eravamo gli attori principali di quel cambiamento. Ricordo la folla durante il meraviglioso concerto di Fabrizio de Andrè. E poi, l’anno dopo, gli Inti Illimani in Piazza Signoria. E Woodstock ’79 nel prato grande delle Cascine, con la voce roca di Joe Coker. Brividi sulla pelle, partecipazione, emozione pura.




Quarto frutto: il femminismo. Avevamo messo su, io e alcune amiche, un collettivo femminista che si riuniva a casa mia. Ci vorrebbe un romanzo per descriverlo nei dettagli, e forse lo scriverò ( ho già 3 capitoli pronti!). Come pure richiederebbe molte pagine il capitolo sulla psicoanalisi, che avevo iniziato con una terapeuta bionda e anziana, dagli occhi di ghiaccio.

Ricordo le lunghe riunioni di auto-coscienza con le mie compagne, ma soprattutto la complicità, la solidarietà, il sostegno. Quella che poi è stata definita con una parola  molto efficace “sorellanza”. Due delle mie amiche le ho ritrovate quest’anno. Pianti e abbracci. Stupore. Non siamo cambiate molto, qualche sogno frantumato, qualche amore disastrato, ma lo stesso sguardo limpido e fiducioso. E quell’aria da ragazze appena un po’ invecchiate, che in qualunque posto ci  permette di riconoscerci, come se fosse quasi una parola d’ordine.

Gli anni ’70 si sono chiusi, nel novembre del ’79, con il suicidio di Ivetta, l’amica con la quale in agosto avevo fatto un viaggio nelle isole greche. Per un mese intero avevamo dormito sulla spiaggia. Ricordo i profumi e la meravigliosa sensazione di libertà. Ci svegliavamo all’alba e subito ci tuffavamo in mare per il primo bagno della giornata. Eravamo diventate nerissime: in una foto sulla sabbia scura di Santorini  di me si vede solo il bianco dei  denti!  Prendevamo il sole integrale e una volta, a Patmos, senza nemmeno rendercene conto, abbiamo superato i confini del nostro camping naturista, trovandoci di fronte un gruppo di pescatori che ci hanno ricacciato in mare con le fiocine, mentre le mogli e i bambini ci gettavano la sabbia in faccia. Per un attimo mi sono sentita come Eva cacciata dal Paradiso. Incoscienti e sfrontate ci siamo tuffate in acqua, ricordo ancora le risate.

Quella è stata l’ultima estate di Ivetta. Sono contenta che l’abbia passata insieme a me.

Che strano, me ne sto rendendo conto solo adesso che ne scrivo, la morte violenta ha segnato per me l’inizio e la fine degli anni ‘70. Chissà che cosa vorrà dire.

Ci devo pensare.

La morte di Ivetta è stata un terribile shock che però mi ha spinta a cambiare molte cose. Dopo un paio di  mesi ho lasciato Pantazis e la terapeuta dagli occhi di ghiaccio e sono andata a vivere per un anno a Parigi con il mio futuro marito peruviano. Sono tornata a Firenze per discutere la mia tesi su Cuba e, dopo appena cinque giorni, sono partita per il viaggio in America Latina che mi avrebbe cambiato la vita.

Ma questa è un’altra storia.






Mia figlia, che come quasi tutte le ragazze della sua età, viaggia con il trolley, con l’iPod e il cellulare, ogni tanto mi dice: “Beata te, mamma, che hai vissuto la giovinezza in quegli anni!”.

E io sento che ha ragione. E’ stato bellissimo, faticoso forse un po’, ma entusiasmante. E io sento, nonostante i miei 55 anni appena compiuti e problemi e vicissitudini di tutti i tipi, che quella ragazza degli anni ’70, piena di sogni, viaggiatrice dell’anima, curiosa e un po’ naif, è ancora dentro di me. E qualche volta mi fa da maestra.




Nel 94 ho deciso di tornare a vivere a Terracina dopo 22 anni. Avevo bisogno di ritrovare le mie radici e la mia appartenenza. E di vedere il mare e le isole dalla finestra.

Ho scoperto che, dopo tanto viaggiare, Terracina è il posto al mondo che io amo di più.

Ogni volta che torno da fuori e vedo in lontananza il Tempio di Giove, mi commuovo. Ma a vent’anni ho fatto bene ad andarmene. Di questo sono sicura. E tornare è stato bello.

Il professore l’ho incontrato un anno fa sul treno per Roma. Non lo vedevo dal ‘72. L’ho riconosciuto subito, dalla voce. Era allegro e pieno di energia. Stava andando con alcune colleghe all’Eliseo. Non è invecchiato quasi per niente.

Il cuore ha iniziato a battermi forte. Avrei voluto salutarlo. E anche ringraziarlo. Per i semi che ha piantato nella mia vita. E scusarmi per averlo detestato, qualche volta.

Scendendo dal treno i nostri sguardi si sono incrociati per un attimo. Ma non gli ho detto niente.

E lui non mi ha riconosciuta.




mercoledì 30 novembre 2016

GEMELLE (Dalla raccolta "BAMBINE")





Irene ha il pollice verde.
Lei ama le piante, le cura e le accudisce con infinito amore, le spolvera e le accarezza mentre sottovoce canticchia con dolcezza qualche canzone. E le piante amano lei, ricompensandola con fioriture improvvise, steli ritti e boccioli turgidi che farebbero la gioia di qualunque vivaista o floricoltore.
Io, anche se sua sorella, e per giunta gemella, ci ho provato a seguire il suo esempio. Quando eravamo bambine, con la bella stagione scendevamo in giardino e ci mettevamo a zappettare in un angolo riparato da un muro di pietra, dove batteva il sole. Il suo pezzo di terra subito fioriva, rigoglioso, il mio restava secco e brullo, con qualche fogliolina striminzita che non durava più di un giorno.
Irene è bionda, io sono bruna. Ha gli occhi grigi e profondi, mentre i miei sono di un castano banale e spento. Non ci rassomigliamo quasi per niente, forse un po’, ma solo un po’ nel naso, dritto e vagamente aristocratico, dalle narici allungate. Per il resto siamo diverse, come il giorno e la notte. Io sembro più grande, forse perché sono più robusta, e nessuno mai, nessuno, nasconde il suo stupore quando scopre che siamo gemelle, uscendosene con qualche frase stupida e risatine imbarazzate. Ormai non ci faccio più caso. Abbiamo frequentato sempre le stesse scuole, dall’asilo al liceo classico. Stesso banco, per tutti quegli anni. Io proteggevo mia sorella dai dispetti dei compagni, dagli sguardi severi di qualche professoressa, dalla corte goffa di qualche studente foruncoloso. Ero il suo scudo, la sua ombra. E lei mi era grata.
Irene è buona, ha un carattere mite, va d’accordo con tutti, sono io quella più scontrosa, dico sempre le cose nel momento stesso in cui le penso e subito dopo mi pento, perché magari ci potevo pensare un po’ su prima di esprimere giudizi e di parlare a vanvera. Quando succede, mia madre fa una faccia contrariata e poi mi riprende, a volte perde anche la pazienza, ma subito dopo Irene la distrae e mi fa l’occhietto come per dirmi non farci caso, adesso le passa, non è successo niente. Insomma lei è perfetta. E io no. Ma non provo invidia, come si fa a invidiare la perfezione? È da stupidi, allora riverso il malumore e la rabbia all’interno di me stessa, mi dico quanto sei scema, ancora non hai imparato, eppure vicino hai un buon esempio, sembra quasi che tu lo faccia apposta a dire sempre la cosa sbagliata, è una forma di masochismo la tua, perché lo fai? Non lo so perché lo faccio, è più forte di me. 
Quest’anno compiamo vent’anni. Irene si iscriverà a Biologia, io ancora non lo so, forse a Economia, c’è tanta matematica e la matematica mi piace, mi dà sicurezza, non puoi sfuggire, non puoi inventare, è perfetta. Quindi le nostre strade, mia e di Irene, si separeranno. Un po’ mi spaventa. Andremo a vivere in due città diverse, ci incontreremo solo a casa dei nostri genitori, un paio di volte al mese. Nostro padre fa il Capotreno, tutta la vita a viaggiare in su e in giù, mia madre fa la sarta, pochi vestiti, qualche riparazione e soprattutto tende. A furia di stare china sulla macchina da cucire  si è ingobbita, ma anche lei sorride sempre, io invece ho preso da mio padre, sempre cupo e con l’espressione triste. Insomma a casa siamo due belle squadre, i chiari e gli scuri, il giorno e la notte, ma funzioniamo bene, ci compensiamo gli uni con gli altri, ci alleiamo a seconda del bisogno. Per esempio a volte io e Irene ci schieriamo contro i nostri genitori, magari per ottenere un permesso e allora il mio lato scuro diventa un po’ più chiaro e la sua luce si adombra  lievemente, insomma diventiamo un colore uniforme e compatto e se ci dice bene la chiara e lo scuro, divisi, non riescono a far fronte comune e devono cedere. Altre volte i due scuri si schierano contro le chiare, e lì è già più dura, vincono quasi sempre le chiare perché sdrammatizzano, con loro non si può litigare, allora io e mio padre dobbiamo cedere e per un po’ si sentono i nostri borbottii pedanti mentre le due chiare cantano  in cucina.
Io non ho un ragazzo. Irene sì. Si chiama Gianmaria. Lui è uno scuro e andiamo molto d’accordo. Ma ha scelto Irene. Non che ci avessi fatto un pensiero, forse solo i primi tempi, quando ancora non si era messo con Irene. Mi piacevano i suoi silenzi e la sua fronte aggrottata, da vecchio. Punto. Non sono neanche gelosa. Cullo la mia tristezza come un bambino appena nato. La coccolo, le parlo. In fondo non mi manca niente. Prima o poi troverò il ragazzo giusto. Nel frattempo studio e vado in piscina. Ecco, quando nuoto, dopo la trentesima vasca comincio a sentire un formicolio dentro che rassomiglia alla gioia e quando mi specchio ho lo sguardo sereno. In quei momenti se qualcuno mi vedesse accanto a Irene direbbe: “Si vede che siete gemelle. Cambiano solo i colori.” 
E  io, grata,  infinitamente grata, gli farei un  sorriso.

domenica 4 settembre 2016

PARLA PIANO...LA BAMBINA DORME (dalla raccolta "BAMBINE")




Erano uscite senza ombrello.
Il vento si era placato e dal cielo cominciava a scendere una pioggia fitta e fastidiosa.

La bambina indossava il cappotto nuovo di panno rosso e il cappellino di lana a rombi comprati pochi giorni prima ai Magazzini La Fayette a Nizza. La mamma si stringeva infreddolita alla gola il colletto di finta pelliccia del soprabito cammello, ormai sbiadito e frusto.

Arrivate al molo furono costrette dagli spruzzi a tornare indietro, sul viale di palme. La gente si affrettava a fare gli ultimi regali prima della chiusura dei negozi.


“Che facciamo stasera?”
“Resteremo in albergo, ho promesso alla Signora Lovati di darle una mano in cucina, sai, con tutti quegli ospiti…” La mamma aveva lo sguardo triste.

“Fa niente, resterò con papà a giocare a tombola”.

Nella hall trovarono il papà che, sprofondato in un divano di velluto verde,  leggeva un libro poliziesco. Indossava il completo principe di Galles, si era appena rasato e aveva un buon profumo di dopobarba. Il papà era sempre elegante e curato, sembrava un attore, e la bambina lo guardava con ammirazione e devozione sconfinate. Lui era il suo re.

Gli altri clienti erano quasi tutti nella sala a scambiarsi gli auguri, in un cicaleccio di convenevoli e saluti. La Signora Pontremoli portava un delizioso cappellino di velluto bordeaux con la veletta sollevata sugli occhi.

“ Com’è bella!- pensò la bambina- Da grande voglio essere come lei. Bella e ricca”.

 Il Signor Pontremoli era molto più anziano della moglie, piccolo di statura e con un grande naso aquilino che spiccava sulla sua faccia pallida e scavata. Ma era gentile e anche lui profumava, come il papà, di buon dopobarba. Faceva il commerciante di tappeti ed aveva accumulato, così si diceva, una fortuna di miliardi subito dopo la guerra.

I tavoli erano stati apparecchiati con particolare cura e la signora Lovati, aiutata da suo figlio Giuseppe, si affannava negli ultimi preparativi. In fondo alla sala da pranzo, vicino al pianoforte a coda, lucido e imponente, era stato sistemato un grande albero di Natale, addobbato con palline argentate e luci intermittenti. Sulla punta una cometa di brillantini luccicanti. La bambina ricordò il piccolo albero di Natale della casa sull’isola, finto e modesto, ma secondo lei il più bello del mondo, e per un attimo sentì un dolore strano, come una spina conficcata in un punto preciso della gola.
Era il secondo Natale che passavano lontani dall’isola. Non le avevano detto niente del trasloco in continente, semplicemente non erano più tornati a casa dopo le vacanze estive e lei non aveva più rivisto la sua scuola, le sue amiche, la sua maestra, i suoi giocattoli. Dopo un mese erano arrivate un paio di casse di legno con qualche libro, la biancheria, i piatti, ma il resto era stato venduto o regalato. Da allora non avevano più avuto una casa ed erano stati ospitati un po’ dai nonni al nord, un po’ dalla zia al mare, e la vita era diventata all’improvviso cupa e triste, proprio come la faccia della mamma. Nel frattempo aveva dovuto cambiare scuola due volte e di fronte alla possibilità di un terzo cambiamento aveva cominciato a piangere e disperarsi, non voleva più andarsene da lì, dal paese al mare del papà, dove ormai si era fatta delle amiche e aveva cominciato ad ambientarsi. Piuttosto sarebbe andata in collegio dalle suore, almeno avrebbe potuto continuare la scuola fino alla fine dell’anno, così aveva detto fra i singhiozzi. A malincuore, stupiti dalla sua rabbia e preoccupati dalle sue lacrime, la mamma e il papà avevano deciso di lasciarla lì in collegio ed erano partiti per il nord, dove il papà aveva trovato un nuovo lavoro, così le avevano raccontato.

Era arrivato Dicembre. Faceva molto freddo, in collegio non c’era riscaldamento e lei era poco vestita, ormai il cappotto le andava corto e stretto e le servivano un paio di scarpe invernali, di un numero più grande.

Erano venuti a prenderla  di notte, in macchina,  per le vacanze di Natale. Lei si era sdraiata sul sedile posteriore con un plaid sulle gambe e subito si era addormentata.

Avevano viaggiato per ore e ore, senza fermarsi mai.

All’alba erano arrivati a Genova. Avevano fatto colazione in un auto-grill sull’autostrada: cappuccino e cornetti caldi.

“Andiamo in Francia, ti va?” le aveva chiesto il papà con un sorriso dolcissimo. Aveva la faccia stanca e la barba lunga. La mamma era andata in bagno a darsi una sistemata e dopo aveva i capelli più in ordine e un rossetto rosa, che un po’ stonava con i suoi vestiti stropicciati.

Intanto era spuntato il sole.

Arrivarono a Nizza in tarda mattinata. Alloggiarono in un piccolo hotel nella città vecchia.

A cena in un ristorante tipico il papà le aveva regalato un mazzetto di viole, e lei col suo cappotto rosso di panno e il basco scozzese comprati nel pomeriggio, si era sentita una principessa.

Dopo due giorni erano tornati in Italia in un piccolo paese sulla Riviera dove il papà e la mamma avevano fatto amicizia con i proprietari di un albergo.

“Vedrai, ti piaceranno” le avevano detto.

E adesso erano lì a festeggiare il Natale.



“La mamma dov’è?”- chiese la bambina.

“E’ in cucina a dare una mano. Penso che ne avrà per tutta la serata. Rimarremo soli io e te, ti dispiace?”

Lei rispose impacciata :

“Un po’, ma non fa niente, non ti preoccupare.”

La cena era buonissima, c’erano anche le uova con la maionese uguali a quelle che faceva la mamma, e il vitel tonnè con i capperi.

Il Signor Pontremoli le sorrise dal tavolo vicino. Rassomigliava a un pellicano, ma le era simpatico e chissà perché le faceva un po’ di  tristezza. Al momento del brindisi la mamma venne al tavolo, tutta spettinata e con le guance rosse.

“Mi fermo solo un attimo, devo tornare a lavare i piatti. Era buona la cena? L’ho preparata io.” disse tutta di un fiato, pulendosi le mani sul grembiule a righe bianche e rosse.

Qualcuno stava strimpellando al piano una musica triste e alcune coppie avevano cominciato a ballare. Anche i Pontremoli. La Signora si era tolta il cappellino, aveva i capelli corti e ricci, e sembrava felice abbracciata al suo pellicano.

“Buon Natale -disse improvvisamente la mamma alla bambina, prendendo qualcosa dalla grande tasca sul grembiule-  tieni, è da parte di Babbo Natale. Stavolta è andata così, ma ti giuro che il prossimo anno, nella casa nuova, saremo di nuovo tutti insieme e ci saranno tantissimi regali.”

Era commossa mentre parlava, commossa e imbarazzata. Sembrava che stesse dicendo una bugia, così pensò la bambina: ogni volta che parlavano della casa nuova i suoi genitori sembravano attori che non hanno imparato bene la parte, goffi e impacciati, e poco convinti di quello che stanno dicendo.

Il pacchetto era rosso, con un fiocco dorato e dei piccoli fiori di carta velina incollati sopra. La bambina lo aprì, curiosa: era un libro di una scrittrice americana. Si intitolava “Un albero cresce a Brooklyn”.

“Vedrai, ti piacerà, è la storia di una bambina come te che, dopo molte peripezie, riesce a realizzare il suo sogno di diventare scrittrice.”

Che strano, appena un paio di anni prima, nella casa sull’isola, lei aspettava emozionata che Babbo Natale arrivasse furtivamente di notte a portarle i regali. Li trovava la mattina dopo sparsi  alla rinfusa ai piedi dell’albero, e veramente non c’era gioia più grande che scartarli uno a uno e allinearli per vedere quale fosse il più bello: la bambola africana o la vestaglia ricamata? I mobili da giardino in miniatura o il libro di avventure? Bei momenti. Anzi meravigliosi. Ma adesso era tutto finito. Lei era cresciuta e non credeva più a Babbo Natale.  E forse, proprio per questo, tutto era diventato grigio e triste.

Rientrarono in camera all’una passata, dopo il panettone, un ultimo brindisi chiassoso e due giri di tombola. I Pontremoli erano andati insieme ad altre due coppie alla messa di mezzanotte e ancora non erano tornati.

La bambina si mise il pigiama quasi a occhi chiusi, poi si accucciò sotto le coperte e prima di crollare in un sonno profondo sentì la mamma e il papà che sottovoce  facevano strani discorsi:

”Allora cara, domani torniamo al Casinò, stavolta andrà bene, vedrai, il sistema è sicuro, ci farà vincere un sacco di soldi, così potremo estinguere il debito con quelle sanguisughe dei Lovati e pagare l’albergo.”

“Speriamo, perché non ce la faccio più ad andare avanti così, sapessi come mi ha trattato quella strega in cucina, sembrava ci provasse gusto a vedermi sgobbare come una schiava. Basta, davvero, dobbiamo a tutti i costi riavere una casa e stare di nuovo insieme, noi tre…..

“Sss…..parla  piano… la bambina dorme…”

La bambina sospirò e borbottò qualcosa. Stava sognando che la Signora Pontremoli ballava abbracciata con il papà.

Lui era vestito tutto di rosso. Da Babbo Natale.

E dietro la barba riccioluta gli ridevano gli occhi.




lunedì 15 agosto 2016

ESPRESSO SALONICCO (dalla raccolta "BAMBINE")



Settembre 1992.


La bambina ha appena compiuto 10 anni.

E’ abbronzantissima, sembra quasi una zingarella, con quei capelli spettinati e i denti bianchi.

Siamo cariche di bagagli: zaini, sacchi a pelo e una grande busta con regali e giocattoli. Perfino una palla. L’espresso Salonicco-Venezia è affollatissimo. Il nostro scompartimento ha sei cuccette che tireremo giù per la notte. Gli altri viaggiatori, due ragazze e due ragazzi, sono norvegesi. C’è un’afa insopportabile, ci siamo portate solo una bottiglia d’acqua, per il mangiare andremo nel vagone ristorante.  
Il treno parte.
A Skopie salgono parecchie persone che non hanno prenotato e si sistemano alla meglio per i corridoi. Il capotreno fa salire tutti.

I bagni sono intasati, manca l’acqua e dopo un po’ si spande per l’aria un odore acre di latrina.

La bambina non si annoia. Guarda fuori dal finestrino con occhi incantati, poi si mette a disegnare con grossi pennarelli colorati, appoggiata sul ripiano estraibile. In questo periodo disegna soprattutto principesse e fate con lunghi veli azzurri e cavalli sghembi dalle zampe rettangolari. I colori sono vividi, brillanti, fanno allegria.

Proviamo ad andare nel vagone ristorante. Bisogna percorrere tutto il treno. Man mano che camminiamo, i vagoni cambiano fisionomia: tappezzeria damascata bordeaux e tendine di pizzo ai finestrini. E uomini con strani copricapo, che rassomigliano a dei fez. Sembra quasi il carrozzone di un circo. Nell’aria c’è una fitta coltre di fumo. Ma abbiamo fame e continuiamo a camminare facendoci spazio fra sporte di paglia, bambini addormentati, madri con lunghe gonne colorate e denti d’oro luccicanti. Il vagone ristorante è molto affollato. Non c’è nemmeno una donna. Appena entriamo il brusio si interrompe per un attimo e tutti ci guardano. Nessuno parla inglese e io nel mio greco approssimativo riesco a ordinare una specie di zuppa di cavolo, bollente, che ci fa sudare ancora di più. Mentre sto pagando, con la coda dell’occhio vedo che un uomo anziano si è messo la bambina sulle ginocchia e le sta parlando in una lingua dal suono dolce, quasi una cantilena. Mi avvicino, lei mi guarda preoccupata, sorrido e la prendo per mano, poi saluto e ce ne andiamo. Mi tremano le gambe. Forse quel signore voleva solo essere gentile.

Il treno si ferma di continuo in piccole stazioni di campagna.

Il paesaggio è dolce, collinare, con piccole chiese dai campanili aguzzi.

Sta scendendo la sera. Nell’aria c’è una cappa pesante di umidità che ci fa sentire sporche a appiccicose. Il bagno è sempre più impraticabile. L’acqua è finita. La bambina ha di nuovo fame. E io anche.

Ripenso con nostalgia al mare trasparente dell’isola e gli alberi fin sulla spiaggia e per un attimo provo una sorta di refrigerio. Cinque settimane volate via, come in un soffio. E’ stata una bella vacanza.

La bambina sta giocando a scopa con una delle ragazze norvegesi, vedo che gesticolano e ridono, non so proprio in che maniera misteriosa sia riuscita a insegnarle le regole del gioco.

Entriamo lentamente nella stazione di Belgrado. Mi viene un’idea: scenderò a cercare acqua, panini e frutta, c’è tempo, il treno si ferma per mezz’ora. Riesco a comprare tutto in un chiosco azzurro e spendo le ultime dracme.

Quando torno al binario il treno non c’è più. Batticuore. Quasi mi manca il respiro.

Ritorno indietro per vedere se ho sbagliato binario, no, è quello giusto, cerco di mantenere la calma, non ho più un soldo, neanche i documenti, ho lasciato tutto sul treno. Soprattutto mia figlia. Mi metto a piangere. Sulla pensilina vedo un uomo in divisa. Fra le lacrime cerco di spiegargli in inglese quello che è successo. Lui scuote la testa, non capisce. Allora gli parlo in greco, mai sono stata così orgogliosa di parlare una lingua straniera. Lui mi sorride e mi risponde sempre in greco: “Binario 9.” Il treno si è spostato per riparare un piccolo guasto alla locomotiva. Lo ringrazio mille volte, gli butto un bacio con la mano e mi metto a correre. Arrivo esausta, il cuore in gola, le gambe che quasi non mi reggono. Il treno è lì, mancano pochi minuti alla partenza. Salgo trafelata. La bambina sta ancora giocando a scopa e mi dice sorridendo: “Mamma, ho scoperto che Babbo Natale abita in Lapponia, me l’ha detto questa signorina.” E mi indica la ragazza norvegese .

 “Brava, tesoro, ma adesso la mamma cerca di riposare perché è un po’ stanca”.

Poi chiudo gli occhi e non sento più la puzza, la stanchezza e il caldo

Sono felice.

Non mi manca niente.

Su questo treno c’è tutto quello che mi serve.





lunedì 25 luglio 2016

UNA BELLA GIORNATA (dalla raccolta "BAMBINE")





La sua nuova amica si chiamava Maria Carla, detta Bambi.
Era molto alta e aveva un accenno di seno, con due capezzoli appuntiti come matite appena temperate. Era un po’strana. Lei non avrebbe saputo dire bene perché. Strana.

Una domenica Bambi l’aveva invitata a pranzo a casa sua.

I suoi erano gentili.

La madre, dopo averla abbracciata, le aveva detto:

“Non chiamarmi signora, mi fai sentire vecchia! Chiamami Nives!”

Appena finito di mangiare, Bambi si era seduta in braccio a suo  padre e aveva preso a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Poi avevano incominciato a ridere parlottando fra loro. Anche la Signora Nives rideva, sembrava contenta.

Lei si era sentita a disagio, fuori posto. Padre, madre e figlia ridevano, ridevano. Sembrava una commedia o uno di quei film dove ridono tutti, ma tu non hai capito la battuta

Guardando Bambi e il padre abbracciati, aveva pensato che lei di suo padre aveva soggezione. Lui non c’era mai e quando era a casa, il sabato e la domenica, se ne stava tutto il tempo a guardare le partite o le corse di moto. Parole poche, strascicate. E sempre le stesse:

“Come va la scuola?”

“Va’ ad aiutare tua madre”

“Comprami un pacchetto di sigarette”.

Basta. Figuriamoci poi sedersi sulle sue ginocchia.

Invece fra quei due c’era una strana complicità. Che lei un po’ invidiava. Come pure invidiava il caos colorato della loro casa, con quei cuscini di velluto sui divani e piante dappertutto. Una casa allegra. Luminosa.

L’invidia la sentiva nella gola, in un nodo fastidioso e amaro, che quasi la strozzava.

Quel pomeriggio, dopo merenda, Bambi aveva tirato fuori dall’armadio un bauletto rosa, merlettato, pieno di matite colorate, rossetti, fard e polveri luminescenti con le stelline. Le voleva insegnare a truccarsi

“Non è un po’ presto a 11 anni?” lei le aveva detto timidamente, mentre cercava di togliersi una macchia di rimmel dalla palpebra.

Ma Bambi, con un rossetto rosa perlato che mandava guizzi luminosi, le aveva risposto:

“Bisogna impararla presto l’arte della bellezza. Guarda mia madre: si è sposata a 18 anni, a 19 sono nata io, e vedi quant’è  bella, sembra una ragazzina. Non hai mai dimenticato un giorno di truccarsi, il rimmel e la matita intorno agli occhi anche quando va a fare la spesa. E invece, scusa, ma tua madre, sembra quasi una vecchia, con quei capelli lisci scoloriti e le zampe di gallina… quanti anni ha? Trentacinque?...pare che ne abbia almeno cinquanta!”

 “Guarda che ti sbagli… mia madre è bella, certo ha un po’ la faccia stanca e sfiorita con tutto quel correre, il negozio, la casa, mio padre, sempre più esigente, ogni giorno camicie bianche da stirare…” Avrebbe voluto risponderle così. Ma era riuscita solo a dirle, a bassa voce: 
“Trentadue. Appena compiuti”.

Sua madre le faceva pena, sempre così affannata, sempre così incupita e stanca. A volte le saliva forte il desiderio di scuoterla per le spalle e gridarle:

“Fermati un attimo, guardami, ascoltami!”

Invece se ne stava zitta, e per calmare il senso di colpa e di impotenza, cercava di rendersi utile. Ogni mattina si rifaceva il letto, a volte puliva il bagno, altre volte dava una mano a stendere il bucato.

Piccole faccende. Non le pesavano. Avrebbe fatto i lavori forzati pur di vedere sua madre sorridere come la Signora Nives, che rideva sempre, scuotendo i capelli riccioluti freschi di parrucchiere e aveva addosso un profumo alla rosa, forse un po’ troppo forte,  ma buono.

Invece sua madre non amava i profumi, diceva di essere allergica. Ma come si fa ad essere allergiche a qualcosa di buono?

Le sapeva tanto di scusa. Semplicemente non aveva i soldi per comprarselo il profumo, o forse le sembrava una cosa frivola, uno spreco, chissà.
A Pasquetta erano andati tutti a fare una scampagnata: Bambi e i suoi genitori, lei e i suoi, e anche suo cugino Oscar. Suo padre aveva un debole per Oscar. Insieme giocavano a pallone o a racchettoni sulla spiaggia, oppure facevano la lotta. Lei se ne rimaneva impalata e timida a guardarli, avrebbe voluto partecipare a quei giochi da maschio, ma non ce la faceva, si sentiva le gambe rigide, bloccate e le spalle contratte. Suo padre rideva, Oscar riusciva quasi sempre a batterlo, ma lui non se la prendeva, anzi, sembrava orgoglioso.
Era il figlio maschio che aveva sempre desiderato... 
Appena arrivati nella sughereta, sua madre e la Signora Nives avevano disteso sul prato una grande tovaglia a quadri, con sopra ogni ben di Dio: frittatine, uova sode, pollo arrosto, patate al forno, tiramisù e colomba. Quattro fiaschi di vino, appoggiati in cerchio intorno a una quercia, sembravano sentinelle impalate a fare la guardia. Gli uomini si erano messi a giocare a carte, Oscar tirava calci a un pallone un po’ sgonfio, Bambi appoggiata ad un albero sfogliava una rivista femminile. Lei si era messa a sgusciare le uova.
“Appena ho fatto arriviamo fino al fiume?” aveva detto a Bambi.

Ma Bambi  aveva risposto alzando le spalle:

“Adesso non mi va, chissà, forse dopo.”

Poi lei si era distratta a mettere la legna sul fuoco per fare la brace.

Quando si era girata Bambi non c’era più. E nemmeno Oscar.
“Li vado a cercare”- aveva pensato- così magari andiamo insieme al fiume”.

Aveva camminato per una buona mezz’ora, fino quasi a perdersi. Al fiume non c’era nessuno. Era risalita su per la collina, inerpicandosi a quattro zampe nei punti più ripidi. Era eccitata, le sembrava un’avventura, un giocare a nascondino più serio, da grandi. Finché aveva sentito delle risate provenire da dietro un cespuglio. “Eccovi, finalmente!” aveva detto a voce alta con sollievo, tutta rossa e accaldata.

Bambi era sdraiata per terra e sopra di lei ansimava Oscar. Erano goffi.
Erano ridicoli.

Era scappata via correndo e inciampando sul terreno scosceso.

“Dove ti eri cacciata? E quegli altri due dove sono? Aiutami a girare le salsicce sulla brace” le aveva detto sua madre.

“Stanno giocando a pallone, fra poco arrivano…”. Il cuore le scoppiava in gola.

Non aveva fatto in tempo a finire la bugia che Bambi era comparsa dal folto degli alberi, sorridente, appena un po’ spettinata, con dietro Oscar, dinoccolato, a testa bassa. Suo padre doveva aver intuito qualcosa perché c’era nel suo sguardo un guizzo di orgoglio che sembrava dire: “E bravo mio nipote!”

 “Grazie- le aveva sussurrato all’orecchio Bambi - domani ti regalo il mio ombretto. Quello azzurro, con le pagliuzze argentate”.

“Io non mi trucco. E poi il blu non mi piace. - si era asciugata una lacrima con il dorso della mano sporco di fuliggine - Uffa, questo fuoco mi fa bruciare gli occhi.”

Bambi le aveva tolto il forchettone dalle mani.

“Spostati che ti aiuto. Se vuoi dopo andiamo al fiume. Sole io te. Va bene?”


Lei aveva tirato su col naso:

“Va bene. Ma promettimi che Oscar non viene.”

“E’ solo un bambino scemo. A me piacciono quelli più grandi. E poi mi diverto di più a giocare con te.”

Lei aveva sospirato. Un sospiro lungo, di consolazione.

Oscar stava facendo la lotta con suo padre.

Il padre di Bambi stava stappando un fiasco di vino.

Le due mamme se ne stavano sedute su un tronco a fumarsi una sigaretta.

Bambi le stava sorridendo.  

Era proprio una bella giornata.

E lei in quel momento si sentiva incredibilmente felice.