giovedì 28 febbraio 2019

IL MIO ANGOLO ILLUMINATO (l'elogio della zucchina)



C'è un angolo della mia cucina, fra il lavello e la finestra che si affaccia sulle colline, la chiesa romanica e più a destra il tempio, che io chiamo “il mio angolo illuminato”. E non perché sia particolarmente luminoso. Nella mia casa non si può sfuggire alla luce, la luce la circonda, a trecentosessanta gradi, e data la posizione fortunata, posso gioire di albe e tramonti spettacolari. No, il mio angolo è “illuminato” perché da anni, da quando cioè cerco di ascoltami di più, mi sono accorta che proprio lì in quell'angolo io divento più serena, più consapevole e più felice. A partire dalla fine del '700, data di costruzione della casa, per molto tempo in quell'angolo c'è stato un focolare con un camino, e quindi decine di donne si sono alternate proprio lì a preparare il cibo, ad attizzare il fuoco, a pulire e lavare le verdure. E io in qualche modo sento la continuità di quei gesti, immagino i volti di quelle donne, la loro fatica, i loro sogni a quella finestra affacciata sulla bellezza. E mi sento una fortunata discendente di quella stirpe di donne in cucina, senza però il loro affanno, la loro fatica, visto che adesso, anche se ormai lo diamo per scontato, siamo circondati dalle comodità. Ma chissà forse anche loro, in quell'angolo a volte si concedevano la lentezza, la gioia dei piccoli gesti, tagliuzzare, sminuzzare, impastare, condire, inventare, in un'alchimia semplice, che io credo dovremmo recuperare. Per me la magia avviene soprattutto di sera. Il silenzio avvolge la casa, il buio non è ancora completo, il rosso infuocato del tramonto si sta stemperando e se il mio sguardo si sposta verso la sala da pranzo, dalla grande finestra vedo le isole e il mare.
E' la mia ora, quella in cui lascio tutti pensieri e gli affanni. Sono a casa, quella casa che ho scelto appena l'ho vista, come se fosse un amore. E che mi è sempre stata fedele, anche quando io, per stanchezza, davanti a qualche suo costoso acciacco a volte penso di disfarmene, per andare in una casa più comoda. Senza tutte quelle scale, senza tutte quelle crepe, senza tutte quelle mattonelle sconnesse. Ma le mie fantasie di infedeltà, durano meno di un giorno. Al primo tramonto, affacciata a una delle nove finestre, riprovo quella sensazione di assoluta meraviglia che mi fa restare immobile, grata, a respirare tutta quella bellezza, quasi come in preghiera. E lì in quell'angolo tutta la stanchezza della giornata svanisce. E' l'ora della minestra. Come un rituale, tutte le sere. La minestra mi conforta, mi fa sentire che mi sto prendendo cura di me, che posso concedermi il tempo di non fare nient'altro, di non pensare a nient'altro. E, mentre affetto una zucchina o una carota o una zucca, mi concentro sui gesti, con calma, nessuno mi corre dietro, divento un'artista che compone con quelle rondelle verdi, arancioni, gialle, la sua opera profumata.
Le mie mani trattengono gli odori, si inumidiscono, si animano, diventano mani utili, dopo ore a battere sulla tastiera di un computer cose che non mi appassionano. Le mie mani riprendono vita. E quando mi capita di cucinare per la mia famiglia o i miei amici, la gioia si moltiplica. Ma devo fare attenzione all'ansia da prestazione, alla fretta che si affaccia. Allora ogni tanto mi fermo e respiro. Tolgo qualche fogliolina secca alla pianta di basilico e mi rimetto al lavoro, rallentando. Tornando alla carota, alla zucchina, al coltello che le affetta, al loro colore, alla loro consistenza e mettendo da parte pensieri fastidiosi e superflui. Non ho bisogno di nient'altro. Ho tutto quello che mi serve. Il mio angolo illuminato. La mia finestra. Il mio respiro. Le mie mani.