martedì 12 luglio 2016

RICORDANDO LA PIOGGIA




Sembrava una parola d’ordine. Semplice e misteriosa nello stesso tempo. Gliel’aveva sussurrata al telefono la voce di un uomo che lei non conosceva, gentile e pacata, da un posto dal nome magico che evocava fiumi di emozioni: Cascina Macondo.
ACQUAZZONE. Intorno a quella parola lei avrebbe dovuto scrivere un racconto. Era un’esercitazione, una specie di gioco serio, fatto insieme a persone sconosciute, adulte come lei rimaste un po’ bambine, e questa cosa la intrigava e incuriosiva.
Il sabato era quasi finito. Aveva promesso di andare a casa di un’amica a guardare un film in cassetta. Era un film dolce, che parlava di padri e figli che si ritrovano alla fine della vita, in Louisiana, con attori splendidi e una musica di sottofondo che strappava l’anima. Per alcune ore non aveva pensato al racconto. Aveva tutta la domenica a disposizione, fino alle quattro del pomeriggio. C’era tempo. Andò a dormire molto tardi. Sognò di essere a Cagliari e di cercare la casa della sua infanzia. Ma non riusciva a trovarla. Tutto era diverso, c’erano piazze nuove, grandi, che lei non conosceva, girava a vuoto, si era persa, prese un taxi che la portò ancora più fuori strada.
Si svegliò alle dieci, con un leggero mal di testa. Il gatto miagolava di continuo, fastidioso. Era anziano, stava perdendo i colpi. Si mise al computer. Anche il computer era fastidioso, le mangiava intere parole e lei doveva ricominciare da capo ogni volta. Sua figlia dormiva, era rientrata quasi all’alba.
C’era il sole.
Cercò di concentrarsi. Non le veniva in mente niente. Forse se ci fosse stata la pioggia sarebbe stato diverso.
ACQUAZZONE. Chissà perché le veniva in mente solo la primavera e quella pioggia fina fina che scende a marzo… “la pioggerellina di marzo che picchia argentina sui tetti…”. E anche la scuola, le prime violette in giardino, il viso dolce della maestra, il profumo della sua compagna di banco, di borotalco e caramelle. Ma nessun acquazzone.
Il gatto si era messo a dormire sulla sua coperta. La casa era in un silenzio totale. La vista del mare dalla finestra e della torre e dei tetti, la rassicurava. Tutto era al suo posto in quella domenica di fine inverno.
All’improvviso ricordò le vacanze in montagna con i nonni.
Partivano da Torino all’alba, veniva un signore vestito da autista, con il berretto. E una grossa macchina nera, tutta lucida. Si chiamava il Signor Formica. Quando cominciavano le curve, su in valle di Lanzo, lei cominciava a vomitare, ma la nonna si era attrezzata bene con sacchetti di carta e strofinacci vecchi. Il Signor Formica al di là del vetro, non si accorgeva di niente.
Quando arrivavano a Mezzenile le girava un po’ la testa, era la stanchezza, erano in piedi dalle cinque, e anche l’euforia. Subito correva all’altalena e cominciava a dondolarsi su su in alto, fino a toccare con la punta dei piedi i rami della grossa quercia. Ed era felice.
Restavano lì tutto il mese di agosto. Era un albergo a conduzione familiare, i proprietari erano il Signor Bracco e sua moglie, la Signora Vera. Era pieno di nonne con i nipotini che andavano lì ogni anno. Sembrava una grande famiglia.
I nonni giocavano a bocce. Le nonne se ne stavano a spettegolare al fresco vicino alle ortensie, qualcuna ricamava o lavorava all’uncinetto. Sua nonna fumava.
I bambini correvano tutto il giorno. Lei aveva imparato a giocare a ping pong, le piaceva il rumore della pallina sul grande tavolo verde con la retina, stava ore e ore a giocare con i maschi più grandi. E poi per riposarsi andava sull’altalena fino a farsi venire le vertigini. Prima di pranzo, a mezzogiorno e trenta spaccate, c’era una strana cerimonia: tutti scendevano in fila indiana sulla mulattiera fino alla fonte a prendere l’acqua ghiacciata e pura che scendeva dalle montagne più alte. Poi c’era il pranzo. E dopo il sonnellino. Per lei era una tortura, non aveva sonno, ma la nonna era implacabile, bisognava dormire a tutti i costi, allora lei se ne stava immobile con gli occhi chiusi a pensare e a volte a furia di pensare si assopiva un po’ per svegliarsi al rumore della pallina da ping pong che indicava che la siesta era finita.
Verso la fine di agosto, quando mancavano ormai pochi giorni alla partenza, il tempo cominciava a cambiare. La sera faceva più fresco, il golfino non bastava più, ci voleva anche uno scialle e spesso dopo cena bisognava starsene chiusi nella saletta della televisione, mentre i grandi se ne stavano a chiacchierare nella sala da pranzo. Ma anche lì era un divertimento. I bambini spostavano tavolini e sedie di giunco e con le tovaglie a quadretti prese nei grandi armadi della signora Vera, costruivano strani accampamenti e giocavano agli indiani. Lei faceva sempre la squaw che accudiva i piccoli o preparava da mangiare, con foglioline e bacche rosse che si trasformavano in insalata e pomodori, come per magia. E proprio in quelle sere che già sapevano di fine dell’estate, arrivavano improvvisi gli acquazzoni. I tuoni rotolavano giù nella valle diventando sempre più potenti e i lampi proiettavano una luce abbagliante sul giardino deserto e sulle sedie di ferro bianche sotto il pergolato. La voce del torrente Stura sembrava più impetuosa e quando la pioggia cominciava a scendere a scrosci, da fuori salivano bisbigli e schioppettii di rami spezzati e di fronde che grondavano, insieme al gocciolare della grondaia in pozzanghere argentine, al rotolare di ghiaia e sassolini giù per il pendio e al tonfo ritmico dell’altalena sbattuta dai vortici di vento sul tronco della quercia. I bambini se ne stavano in silenzio nel loro accampamento e in quei momenti tutto era possibile : loro erano veri indiani delle praterie che stavano aspettando la fine della grande pioggia per la quale tanto avevano pregato il Grande Spirito e fatto danze in cerchio.
Le campane stavano suonando, era mezzogiorno. Si alzò dalla scrivania per andare da sua figlia che si era svegliata. Il gatto miagolava di nuovo. Doveva preparare il pranzo. Niente di complicato: orecchiette con i broccoli, già lessati, e uno sformato con speck e mozzarella. Ci avrebbe messo una mezz’oretta in tutto. E dopo pranzo avrebbe ripreso a scrivere. Le erano venuti in mente gli acquazzoni dell’America Latina, quelli del viaggio. Dopo mangiato li avrebbe raccontati. Adesso doveva smettere di scrivere, c’erano anche i piatti del giorno prima da lavare, e poi si doveva ancora vestire. Di tempo in fondo fino alle quattro non ce n’era molto. Doveva sbrigarsi. Le stava venendo un po’ di ansia.
Dopo pranzo si rimise al lavoro. Aveva perso la concentrazione. Cercò di ricordare le piogge dell’America Centrale. Era passato tanto tempo e successe tante cose. E chissà se le avrebbe fatto bene ricordare.
Inizio del viaggio. Ricordi meteo.
A Città del Messico avevano trovato il sole e l’aria limpida, nonostante lo smog. 
A Vera Cruz un’afa insopportabile che non li faceva dormire.
A Oaxaca venticello gentile, nuvole bianche in cieli smaltati di blu, ma niente pioggia.
Sulla costa del Pacifico, a Puerto Angel e Zipolite, tramonti mozzafiato e cieli sereni.
A San Cristobal  finalmente la pioggia.
Erano arrivati di sera con una corriera sgangherata. Erano stanchi, sporchi e affamati. Gli hotel erano tutti al completo. Gli zaini pesavano sulle spalle. Il suo era rosso, con le cinghie nere. All’improvviso aveva cominciato a piovere. Ma non era una pioggia normale, le gocce erano enormi e formavano rivoli fastidiosi che si insinuavano dappertutto, nelle scarpe, nei vestiti, sulla faccia e sui capelli. In pochi minuti erano diventati completamente fradici. Non c’era nessun posto dove ripararsi. Finalmente in una viuzza stretta trovarono l’insegna di un hotel. La camera era piccola, dalle pareti gialle. Si spogliarono completamente ma si accorsero che tutti i vestiti che avevano negli zaini erano completamente zuppi. Li strizzarono e li misero ad asciugare sulle sedie e sull’attaccapanni. Per coprirsi si arrotolarono nelle lenzuola pulite di bucato.
Il mattino dopo c’era un sole splendido e i vestiti si erano asciugati.
Dopo pochi giorni erano passati in Guatemala. Colori ancora più brillanti, paesaggi minuti di colline e case bianche, donne sorridenti con casacche ricamate e bambini paffuti addormentati sulle spalle. Si erano fermati in un paesino chiamato Flores, sulle rive di un lago. Le piogge recenti avevano fatto innalzare il livello dell’acqua fino a sommergere le fondamenta dell’hotel che così sembrava emergere dal lago. L’edificio era di legno azzurro, loro erano gli unici clienti, insieme a un giovane antiquario uruguaiano che viveva a Parigi.
La pioggia arrivava di mattina in banchi fitti che sembravano di nebbia.
Era uno spettacolo. Il lago diventava giallo come lo zolfo e piccoli mulinelli di pioggia increspavano la superficie. Senza tuoni, senza fulmini, si sentiva solo lo scroscio della pioggia, come una cascata impetuosa. Poi all’improvviso finiva tutto e si riaffacciava il sole. E la luce era di nuovo chiara, limpida, perfetta.
In Costa Rica, a San Josè, due o tre volte al giorno arrivavano all’improvviso gli acquazzoni.
Duravano pochi minuti e facevano baccano.
La gente, già sorridente di natura, cominciava a ridere e scappare alla ricerca di un riparo ed era un chiacchiericcio allegro mischiato allo scrosciare della pioggia che rendeva le giornate briose e movimentate.
Quando invece si trovavano in casa e cominciava a piovere, Doña Carmen, l’amica che li ospitava, prendeva la gabbia con Lorita, la pappagalla, e la metteva all’aperto nel cortile. E succedeva un miracolo: Lorita cominciava a gorgheggiare e a cantare una melodia intonatissima, tutta sua, felice di essere al mondo, con l’acqua che le grondava sulle piume e la faceva sembrare spennacchiata, e gli occhietti  tondi che sprizzavano gioia.
Se lei si concentrava un po’, poteva ricordarsela quella musica bellissima, perché di musica si trattava.
Un pezzo unico, originale, mai più sentito.
Il tempo stava per scadere. Le erano venute in mente altre piogge e altre atmosfere, ma non poteva ricordarle tutte. 
I cieli di Parigi dopo un temporale, le trombe marine dalla sua finestra sul mare d’inverno, la pioggia di primavera in Sardegna sotto la tenda che reggeva appena, la tempesta su quella barca che li portava a Livingstone, l’alluvione di Firenze visto alla televisione, la paura e lo smarrimento e, anni dopo, quando faceva l’università, il segno sul muro della sua casa a due metri di altezza con la targa: “il 4 Novembre 1966 l’acqua dell’Arno è arrivata qui.”
Ma non c’era più tempo.
Il gatto aveva ripreso a miagolare. Forse aveva fame.
Cascina Macondo. Chissà, forse un giorno ci sarebbe andata. Le piaceva comunque sapere che il suo racconto sarebbe stato letto da qualcuno, con rispetto e attenzione, intorno al fuoco.
Con i bambini che giocavano.
E i cani e i gatti.
E forse nell’aia le galline.
Come una famiglia. La famiglia di chi ama la scrittura e la vuole condividere con gli altri, non tenersela stretta stretta per sé. Era bello questo pensiero. Le dava allegria.
Sì, la prossima volta ci sarebbe andata. E sarebbe stata primavera.
 
In canoa

su un lago tranquillo

che con le piogge

torrenziali

ha allagato l’albergo

ci affacciamo sull’acqua

tu ti tuffi

l’aria è gialla di zolfo

il vicino di stanza

è uruguaiano

fa il mercante d’arte

a Parigi

non ricordo il suo nome

so solo che è triste

e ha la faccia con i segni dell’acne

l’ultimo giorno

prima di salire sull’autobus

gli ho prestato una penna

per scrivere delle cartoline

con la sua calligrafia appuntita

ho perso il suo indirizzo

ora ricordo

si chiamava Christophe

la penna non me l’ha più restituita.






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