mercoledì 19 aprile 2017

LA RAGAZZA DEGLI ANNI '70 (Dal libro "Niente da dichiarare")





Di quegli anni ricordo la fretta, di vivere, conoscere, sperimentare, in una frenesia di corpo e mente, mai stati così uniti.

Nell’agosto del ’70 la morte di mio padre in un incidente d’auto, ha posto fine alla mia adolescenza dando l’avvio, con uno scossone imprevisto e terribile, alla mia giovinezza. Avevo 18 anni.

Quello stesso anno è arrivato nel nostro Liceo un nuovo insegnante di lettere. Era giovane, anche se aveva i capelli già brizzolati, appassionato e di sinistra e in pochi mesi ha raso al suolo tutte le mie certezze. I miei compagni lo guardavano estasiati, pendevano tutti dalle sue labbra, invece io non ero ancora pronta ai suoi fiumi di parole, ai cineforum sui film di Eisenstein, agli spettacoli teatrali all’Eliseo, alle pagine e pagine di appunti che ci dettava a ritmo serrato, non ero pronta alla veemenza e alla passione con le quali quasi ci costringeva a crescere, a ragionare con la nostra testa, a scrollarci di dosso modelli superati e obsoleti, a vivere. Ancora conservo i fogli protocollo con i miei temi, che lui regolarmente stroncava, a colonne infuocate, credendo forse di scuotermi. Solo anni dopo mi sono resa conto di quanto la sua venuta nella conformista, annoiata IV C, sia stata in qualche modo il prologo di quello che sarebbe avvenuto dopo, almeno nella mia vita. Ma confesso di averlo in qualche momento detestato, lui, il professore: era troppo per me, io ero pigra, lenta, e la furia delle sue parole, il suo impeto, invece di spronarmi mi rendevano ancora più pigra e maldestra. Ma aveva piantato in me piccoli semi di consapevolezza e ribellione, che non hanno tardato a dare i loro frutti. E di questo io gli sarò per sempre grata.



 Primo frutto: i viaggi.
Io e Lena, la mia inseparabile amica, siamo state le prime a Terracina a viaggiare in auto-stop. Anche lei aveva perso il padre da poco e la nostra condizione di orfane forse ci aveva reso più temerarie e curiose: niente o nessuno ci poteva fermare, neanche le nostre madri, piuttosto preoccupate. Abbiamo girato in lungo e in largo per il Sud (Puglia, Calabria, Sicilia, più volte la Sardegna che era la nostra preferita), chiedendo passaggi ad automobilisti sempre gentilissimi e a qualche camionista che ci caricava su volentieri per fare il viaggio in compagnia. Alloggiavamo quasi sempre negli ostelli e, con i pochi soldi guadagnati lavorando come baby sitter o  commesse, facevamo viaggi lunghi mai meno di un mese. Allacciavamo amicizie, che sarebbero poi durate anni, con molti degli improvvisati compagni di viaggio che si  univano a noi lungo il percorso. Ci è capitato di dormire in stazioni, tipografie, case diroccate, garage, spiagge, giardini pubblici, infilate nei nostri sdruciti sacchi a pelo a mummia. Il mio era rosso, a fiorellini, l’avevo comprato a Porta Portese. Non ci è mai successo niente di spiacevole, a parte quella volta che a Cagliari ci siamo beccate le pulci. Probabilmente eravamo temerarie e prudenti nello stesso tempo e riuscivamo a schivare le situazioni e le persone pericolose. Ma l’imprevisto, la sorpresa, l’avventura, erano sempre dietro l’angolo. E non abbiamo mai avuto paura. Ci lasciavamo guidare da una fiducia illimitata nella vita, nella gente, nella natura, che probabilmente ci ha sostenute e protette. Non potrò mai dimenticare il profumo della macchia mediterranea quando stanche, dopo una notte insonne sul ponte della nave, sbarcavamo a Golfo Aranci, con gli zaini sulle spalle carichi fino all’inverosimile e lo sguardo acceso di stupore e meraviglia davanti a tanta bellezza: nell’aria tersa dell’alba tutto era rosa, nitido, perfetto. Se dovessi scegliere un’istantanea, solo una, per ricordare quegli anni, sarebbe questa.




Secondo frutto: l’indipendenza.

Nel ’72, dopo gli esami di maturità, avevo deciso di trasferirmi a Roma per iscrivermi a Scienze Politiche. Ma qualcosa non mi convinceva del tutto. Avevo voglia di allargare i miei orizzonti. Una telefonata di Alberto e Augusto, miei compagni di liceo, ha tagliato la testa al toro. Stavano andando a Firenze per iscriversi all’Università. Dopo una notte intera a parlare con mia madre, che ha avuto la generosità di lasciarmi andare, sono partita con loro. In pochi giorni abbiamo trovato una casa colonica in periferia e  siamo andati a vivere insieme. Io, sola con due ragazzi. Faceva tanto Jules e Jim, anche se non c’era del tenero con nessuno di loro. La casa era freddissima, grande, a due piani. Alberto aveva scelto la stanza al piano terra, che aveva dipinto di giallo. Io quella al piano di sopra, che si affacciava sull’aia, con le pareti di un arancione brillante. Augusto invece era andato a stare nella stanza in fondo al corridoio e l’aveva pitturata completamente di nero, compreso il grande soppalco. Fuori c’era un campo piantato a bietole e carciofi e i vicini spesso ce ne regalavano grandi borsate. Io ero vagamente attratta da Alberto. Era piccolo e mingherlino, con le lenti da miope che lasciavano intravedere gli occhi grigio-azzurri e aveva delle dita lunghe e nervose che muoveva con grazia mentre parlava con voce bassa e calma, di musica, letteratura, arte, politica, cinema, e molto altro ancora. Aveva una cultura incredibile per la sua età e io l’ammiravo tantissimo. Lo ascoltavo estasiata, ma con lui non riuscivo a parlare.  Neanche al Liceo ci ero mai riuscita, ma in V, verso la fine dell’anno scolastico, un giorno lui mi aveva proposto di iniziare uno scambio epistolare e da quel momento il nostro legame, anche se sempre molto silenzioso da parte mia, era diventato più intenso. Ancora le conservo quelle lettere  (non riesco a staccarmi da certi ricordi!), a qualcuna erano allegati dei cartoncini disegnati con la china e gli acquarelli. Alberto sapeva fare tutto, disegnare, cantare, suonare. E imparava le lingue ( persino il polacco!) con estrema facilità. Io invece ero piuttosto insicura e credevo di non essere capace a fare niente. Con Augusto invece chiacchieravo molto, eravamo amici, spesso andavamo al cinema (Alberto rimaneva in casa a leggere o a suonare), poi ha conosciuto una ragazza che studiava matematica e da allora se ne stava interi pomeriggi rintanato con lei nella stanza nera ad ascoltare la musica dei Genesis a tutto volume. Niente più cine.

Con l’arrivo di Angela, che si è subito messa con Alberto, ormai si erano formate le coppie. Qualche malinteso, cose di poco conto, esigenze diverse, e dopo un po’ le nostre strade si sono divise. Abbiamo lasciato tutti la casa colonica.

Ho trovato un appartamento in centro, nel quartiere di Santa Croce,
con delle tipe piuttosto squinternate. Avevo una stanza di passaggio, lunga e stretta, non c’era né doccia né bagno e allora andavo ai bagni pubblici dietro casa. Ricordo lo squallore: mattonelle bianche da obitorio, lampadine fioche, pulizia approssimativa, qualche barbone con le buste di plastica che aspettava il suo turno. All’ingresso mi davano una saponetta Lux e un asciugamano sdrucito, che io mi guardavo bene dall’adoperare. Poi entravo in una piccola stanza da bagno, mettevo i miei vestiti su uno sgabello, riempivo la vasca dallo smalto scrostato e me ne stavo immersa nell’acqua calda fino al collo per una buona mezz’ora. Ecco, quello era un lusso che mi concedevo una volta a settimana.

La mia quota per l’affitto era di 12.500 lire, per un pasto alla mensa ne spendevo 300, il biglietto del cinema costava 150 Lire. Spesso passavo le serate in un cinema d’essai che si chiamava Alfieri a fare scorpacciate di film meravigliosi. Proprio lì credo, in quel cinema fumoso e freddo, è nata la mia grande  passione per il cinema. Un mese fa, a Firenze, mi hanno detto che l’Alfieri è stato chiuso e che probabilmente al suo posto verrà aperto un super-mercato.

Una delle mie coinquiline era inglese, si chiamava Pamela Smith (nome molto originale per un’inglese!) e stava con un ragazzo pugliese che, quando facevano l’amore, lanciava delle urla pazzesche. Lei usciva dalla stanza solo per farsi lo shampoo due volte al giorno (aveva i capelli che grondavano olio!) e per riscaldarsi una minestra Campbell sempre nello stesso pentolino di smalto, che non sciacquava mai.

Nel frattempo io avevo trovato lavoro come baby sitter e dato i primi esami.

Ormai la stanza di passaggio era diventata un incubo. E una delle mie compagne di casa aveva avuto una bambina e stava per sposarsi. Ho traslocato di nuovo, sempre in Santa Croce, in una casa molto carina, ma senza riscaldamento. Ecco, un altro ricordo di quegli anni è legato al freddo che ho patito. Così tanto da ammalarmi un inverno, in maniera piuttosto grave.

Per un po’ sono stata da sola, poi è venuta a vivere con me una mia compagna di facoltà, di San Gimignano. Davo esami su esami e sono riuscita ad ottenere il pre-salario. Mangiavo tutti i giorni alla mensa universitaria e per vestire non spendevo quasi niente (eskimo, zoccoli, borse di cuoio della Tolfa e maglioni slabbrati) e ogni volta che uscivo con mia madre lei mi diceva con voce tremante. “ Ma dimmi Elvira, lo fai apposta, vero, a vestirti così…. per mettermi a disagio….?”.

Nel ’76 ho iniziato una storia con Pantazis, un ragazzo greco che studiava Architettura. Lui è venuto subito a stare da me, occupando quasi tutto lo spazio della mia stanza con il suo enorme tavolo da disegno. Abbiamo adottato un bastardino nero di nome Ugo, che ci portavamo dappertutto, all’Università, alla Mensa e nei nostri numerosi viaggi in Grecia. Per tre anni, finché è durata la nostra convivenza, non ho praticamente dormito. E non ho messo mano alla tesi. Pantazis aveva l’hobby della fotografia e passavamo le nottate a  sviluppare e stampare foto nello sgabuzzino che avevamo trasformato in camera oscura. Io gli facevo da modella, abbiamo vinto anche qualche premio. Una volta siamo andati per una premiazione a Boves, un bellissimo paesino sulle colline in provincia di Cuneo, ricordo che avevamo partecipato con delle foto molto intense in bianco e nero, in quella che ha vinto c’ero io seduta a una scrivania con dei libri sopra e una scritta:”E DOPO?”. Naturalmente ci ponevamo il problema del dopo Università, ma in maniera scanzonata e allegra, un po’ incosciente forse, ed eravamo comunque fiduciosi che avremmo trovato la nostra strada e realizzato i nostri sogni.

Di tutte quelle foto purtroppo me ne sono rimaste poche. Ne ho una, incorniciata in salotto, è del mio seno. Sembra una scultura, per via delle ombre e del chiaro scuro. Un piccolo vezzo per ricordare la mia gioventù.



Terzo frutto: la politica.

Contagiata dai fermenti di quel periodo, avevo deciso, sfidando la mia insicurezza, di fare anch’io attività politica. Una mattina mi sono presentata timidamente alla segreteria della sezione del PCI dietro casa mia. Una ragazza piuttosto antipatica mi ha fatto il terzo grado. Voleva sapere tutto di me. Mi ha chiesto quando avevo avuto “la chiamata”. Comunque le devo essere piaciuta perché mi ha detto di presentarmi la domenica successiva per la distribuzione dei giornali. E per un bel po’ di tempo ogni  domenica mattina ho fatto rampe e rampe di scale nel quartiere di Santa Croce, fra case maleodoranti e palazzi principeschi, per distribuire l’Unità. C’è stata poi la parentesi  della “Scuola di Partito”, che è durata solo un inverno. Ci incontravamo nella Casa del Popolo di Piazza de’ Ciompi. Una volta ci ho portato anche mia madre, che ci si è trovata  subito a suo agio,  forse più a mio agio di me. Ma poi la cosa è andata scemando ed è finita lì.

Ogni tanto arrivava da Terracina, per partecipare a qualche congresso del PCI, il nostro amico Vincenzo, che eravamo orgogliose di ospitare nello sgabuzzino senza finestre che avevamo adibito a stanza degli ospiti, fra scarpe, valigie e giornali vecchi. E in quello stanzino buio e umido abbiamo ospitato per lunghi periodi amici senza casa o  semplicemente di passaggio.

Durante il festival Nazionale dell’Unità del ’75, alle Cascine, io e Lena, che nel frattempo mi aveva raggiunta a Firenze, abbiamo preparato per i compagni centinaia e centinaia di panini con i wurstel. Ricordo l’allegria e lo spirito di solidarietà, ore e ore in piedi, vicino al fuoco, a ridere e scherzare. Mi sentivo importante, un piccolo tassello in un mosaico colorato e brillante ed ero piena di energia, avevo tutta la vita davanti. Il mondo stava cambiando e noi eravamo gli attori principali di quel cambiamento. Ricordo la folla durante il meraviglioso concerto di Fabrizio de Andrè. E poi, l’anno dopo, gli Inti Illimani in Piazza Signoria. E Woodstock ’79 nel prato grande delle Cascine, con la voce roca di Joe Coker. Brividi sulla pelle, partecipazione, emozione pura.




Quarto frutto: il femminismo. Avevamo messo su, io e alcune amiche, un collettivo femminista che si riuniva a casa mia. Ci vorrebbe un romanzo per descriverlo nei dettagli, e forse lo scriverò ( ho già 3 capitoli pronti!). Come pure richiederebbe molte pagine il capitolo sulla psicoanalisi, che avevo iniziato con una terapeuta bionda e anziana, dagli occhi di ghiaccio.

Ricordo le lunghe riunioni di auto-coscienza con le mie compagne, ma soprattutto la complicità, la solidarietà, il sostegno. Quella che poi è stata definita con una parola  molto efficace “sorellanza”. Due delle mie amiche le ho ritrovate quest’anno. Pianti e abbracci. Stupore. Non siamo cambiate molto, qualche sogno frantumato, qualche amore disastrato, ma lo stesso sguardo limpido e fiducioso. E quell’aria da ragazze appena un po’ invecchiate, che in qualunque posto ci  permette di riconoscerci, come se fosse quasi una parola d’ordine.

Gli anni ’70 si sono chiusi, nel novembre del ’79, con il suicidio di Ivetta, l’amica con la quale in agosto avevo fatto un viaggio nelle isole greche. Per un mese intero avevamo dormito sulla spiaggia. Ricordo i profumi e la meravigliosa sensazione di libertà. Ci svegliavamo all’alba e subito ci tuffavamo in mare per il primo bagno della giornata. Eravamo diventate nerissime: in una foto sulla sabbia scura di Santorini  di me si vede solo il bianco dei  denti!  Prendevamo il sole integrale e una volta, a Patmos, senza nemmeno rendercene conto, abbiamo superato i confini del nostro camping naturista, trovandoci di fronte un gruppo di pescatori che ci hanno ricacciato in mare con le fiocine, mentre le mogli e i bambini ci gettavano la sabbia in faccia. Per un attimo mi sono sentita come Eva cacciata dal Paradiso. Incoscienti e sfrontate ci siamo tuffate in acqua, ricordo ancora le risate.

Quella è stata l’ultima estate di Ivetta. Sono contenta che l’abbia passata insieme a me.

Che strano, me ne sto rendendo conto solo adesso che ne scrivo, la morte violenta ha segnato per me l’inizio e la fine degli anni ‘70. Chissà che cosa vorrà dire.

Ci devo pensare.

La morte di Ivetta è stata un terribile shock che però mi ha spinta a cambiare molte cose. Dopo un paio di  mesi ho lasciato Pantazis e la terapeuta dagli occhi di ghiaccio e sono andata a vivere per un anno a Parigi con il mio futuro marito peruviano. Sono tornata a Firenze per discutere la mia tesi su Cuba e, dopo appena cinque giorni, sono partita per il viaggio in America Latina che mi avrebbe cambiato la vita.

Ma questa è un’altra storia.






Mia figlia, che come quasi tutte le ragazze della sua età, viaggia con il trolley, con l’iPod e il cellulare, ogni tanto mi dice: “Beata te, mamma, che hai vissuto la giovinezza in quegli anni!”.

E io sento che ha ragione. E’ stato bellissimo, faticoso forse un po’, ma entusiasmante. E io sento, nonostante i miei 55 anni appena compiuti e problemi e vicissitudini di tutti i tipi, che quella ragazza degli anni ’70, piena di sogni, viaggiatrice dell’anima, curiosa e un po’ naif, è ancora dentro di me. E qualche volta mi fa da maestra.




Nel 94 ho deciso di tornare a vivere a Terracina dopo 22 anni. Avevo bisogno di ritrovare le mie radici e la mia appartenenza. E di vedere il mare e le isole dalla finestra.

Ho scoperto che, dopo tanto viaggiare, Terracina è il posto al mondo che io amo di più.

Ogni volta che torno da fuori e vedo in lontananza il Tempio di Giove, mi commuovo. Ma a vent’anni ho fatto bene ad andarmene. Di questo sono sicura. E tornare è stato bello.

Il professore l’ho incontrato un anno fa sul treno per Roma. Non lo vedevo dal ‘72. L’ho riconosciuto subito, dalla voce. Era allegro e pieno di energia. Stava andando con alcune colleghe all’Eliseo. Non è invecchiato quasi per niente.

Il cuore ha iniziato a battermi forte. Avrei voluto salutarlo. E anche ringraziarlo. Per i semi che ha piantato nella mia vita. E scusarmi per averlo detestato, qualche volta.

Scendendo dal treno i nostri sguardi si sono incrociati per un attimo. Ma non gli ho detto niente.

E lui non mi ha riconosciuta.




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