Amo i treni regionali. O gli
intercity, quei pochi che sono rimasti. Non amo le varie frecce, anche se devo
riconoscere che la loro velocità mi permette di arrivare da Roma a Firenze in
un'ora e mezzo. Ma non è per me un tragitto piacevole. Perché i sedili sono
stretti, gli spazi angusti e mi tocca stare a una distanza molto ravvicinata con i
miei compagni di viaggio, quasi sempre assorti a parlare, spesso a voce alta,
al cellulare o intenti a scrivere qualcosa sul loro portatile oppure a fare dei
giochetti rumorosi. Non ci si parla più sui treni ( a parte, qualche volta sui
regionali) e non ci si scambiano più i giornali, in un baratto gentile che in
qualche modo ci avvicinava e ci costringeva a sorriderci e a ringraziarci. Non
si guarda più fuori dal finestrino
(io sì) perchè troppo assorti nel mondo
virtuale. Persino i controllori, che passano sempre meno, sono più frettolosi e
distaccati. Non sono un’anziana signora nostalgica dei treni a vapore, ma penso
che non sempre la velocità sia qualcosa di positivo in assoluto. C’è stato un
periodo, da giovane, quando ero ancora studentessa, che andavo spesso da Firenze
a Parigi in pullman. Era un viaggio lungo e scomodo con solo tre o quattro
tappe in qualche autogrill. Ci fermavamo ad Aosta, a Lione e in un’altra città
che non ricordo. Guardavo dal finestrino il paesaggio cambiare, rimanevo
incantata dai piccoli borghi aggrappati sui fianchi delle colline, dalla
campagna che cambiava colore, dai fiumi, dalle case cantoniere, dalle montagne
innevate. Mi addormentavo rannicchiata sul sedile e al mattino, quando
arrivavamo a Parigi, a Place Stalingrad, ero stropicciata e assonnata e mi ci
voleva subito un bel caffé, che non potevo certo pretendere fosse come l’espresso
italiano, ma comunque mi faceva aprire gli occhi. In uno di questi viaggi una
volta mi è successa una cosa bizzarra. In fondo al pullman c’era una tendina
con dietro una cuccetta per il secondo autista. Mi accorsi che era vuota e
andai a coricarmi. Caddi in un sonno profondo. A metà notte mi svegliai di
soprassalto: un uomo si stava sdraiando nella cuccetta, dalla parte opposta a
me. Io feci per alzarmi, ma lui mi disse in francese di non preoccuparmi, c'era spazio per tutti e due. La mia innata fiducia nel genere umano, mista alla stanchezza,
mi fece decidere in un nano-secondo di restare. Non siamo soli, pensai, e
alla prima avance potrei gridare. Ma sapevo che non ce ne sarebbe stato
bisogno. Mi svegliai al mattino, dopo un sonno ristoratore. L’autista ancora
dormiva e mi accorsi che mi teneva una caviglia. Tutta la notte così, con
la mia caviglia in mano, come un bambino che tiene la mano della mamma. Mi fece
tenerezza e dolcemente mi svincolai. Lui aprì gli occhi e mi disse con un
sorriso “Bonjour Mademoiselle!”. E il suo sguardo era azzurro e gentile. Ecco,
questo è uno di quei ricordi che mi scaldano il cuore.
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