Da quando quell’uomo era venuto ad
abitare al piano di sopra, lei aveva paura.
Paradossalmente
si sentiva più al sicuro a vivere tutta sola, in quel palazzo un po’ malandato del
700 con il portale antico di marmo che cadeva a pezzi e le scale buie dalle
mattonelle consumate. Prima di rientrare, la sera, si faceva coraggio, saliva
gli scalini due alla volta con un leggero affanno e poi si richiudeva rapida la
porta alle spalle. Ecco, era al sicuro, metteva il paletto e si accendeva subito
una sigaretta. La sua casa era lì, fedele e materna, ad accoglierla con i suoi
muri possenti e le finestre ampie che si affacciavano sulla piazza dai ciottoli
squadrati. Ci pensavano le campane della Cattedrale a rompere il silenzio ogni
mezz’ora. Per il resto la notte era silenziosa, un silenzio perfetto, appena
impreziosito da scricchiolii vari, il respiro del mare in lontananza e il canto
di qualche civetta. A volte un gufo si metteva a bubolare sul davanzale della
finestra, ma non le dava fastidio, era come un brontolio sommesso che le teneva
compagnia.
Poi un bel giorno
era arrivato lui.
Aveva sentito
girare la chiave, 5 giri completi, nell’appartamento all’ultimo piano, da
sempre disabitato. Il cuore aveva preso a batterle all’impazzata. Dopo una
mezz’ora avevano suonato alla porta. Lei aveva aperto uno spiraglio, tenendo il
catenaccio con la mano.
“Salve, sono il
Cavalier Riccomini. Mi sono trasferito qui, vengo da lontano.”
Aveva un’età
indefinibile, sembrava un giovane invecchiato precocemente, il volto solcato
dalle rughe e gli occhi azzurri dalle palpebre cadenti. Ma la voce era
squillante. Non era una voce da vecchio. Lei aveva aperto la porta, senza farlo
entrare. Dandogli la mano si era accorta che lui indugiava nella stretta
qualche istante di troppo.
Pochi
convenevoli:
“Benvenuto nel
palazzo.”
“E’ bello sapere
che al piano di sotto abita una giovane donna.”
“... se ha
bisogno di qualcosa, non so … per orientarsi nel quartiere … mi chiami pure.”
“Grazie, lo
farò.”
Poi lui se ne era andato, con le spalle curve,
salendo le scale a fatica.
Aveva strani
orari. La notte lo sentiva passeggiare su e giù fino all’alba. I suoi passi
coprivano il verso del gufo e il rumore del mare e un po’ le dispiaceva.
Iniziò a usare i
tappi di cera. E a fare sogni inquieti.
Una mattina
incontrò il Cavaliere al mercato della Marina. Indossava un antiquato cappotto,
lungo fino ai piedi, di un panno pesante, blu, con delle strane spalline. La
sua testa grigia era china su un banco di ortaggi. Aveva un paio di guanti con
le mezze dita, di lana lisa. Sembrava un nobile decaduto, diventato barbone. Ma
si vedeva che era pulito e, a parte un vago odore di naftalina, emanava un
profumo di saponetta alla rosa e di acqua di colonia. Le fece un cenno di
saluto, mentre sceglieva con attenzione dei limoni, scartando quelli più verdi.
Una notte lo sentì
gridare. Un grido soffocato, di dolore, di angoscia. Che la spaventò
moltissimo. Salì e rimase in ascolto. Silenzio assoluto. Poi di nuovo quel
grido, venato di strazio. Il campanello non funzionava e lei si mise a bussare
energicamente. Nessuna risposta. Ma non riusciva ad andarsene. Se ne stava lì,
imbambolata davanti alla porta. Nell’aria un’ intensa fragranza di giacinti.
“Cavalier
Riccomini, ha bisogno d’aiuto?”
Una voce che
sembrava venire dall’oltretomba rispose: “Non è niente, una delle mie solite
coliche, stia tranquilla.” Lei se ne tornò a letto, ma non riuscì a riprendere
sonno.
La cosa si era
ripetuta un paio di volte. Ormai lei a casa cercava di starci il meno possibile.
Rimaneva nello studio a sbrigare le pratiche arretrate. Ordinava una pizza o una
pietanza al cinese e si scolava un paio di birre. Aveva anche aumentato a
dismisura il numero delle sigarette. Si sentiva come malata.
Tornava a notte
fonda, giusto in tempo per sentire i passi strascicati del Cavaliere.
Cambiò marca di
tappi per le orecchie. Quelli di cera non erano sufficienti. Con la gommapiuma
forse sarebbe andata meglio.
Una notte si
accorse che all’improvviso era calato uno strano silenzio. Ma non era quello
ovattato al quale ormai si era abituata. Non c’era più nessun rumore da cui proteggersi.
Né quello del mare, né quello
delle campane, neppure quello del gufo. Si tolse i tappi: un silenzio perfetto.
Un silenzio irreale, di pace assoluta. Durò qualche minuto, poi lentamente ritornarono
i suoni. Ma niente più passi.
L’otorino le disse
che aveva un udito normalissimo. E che forse aveva sofferto di un fenomeno
di derealizzazione. A volte, quando si è molto stanchi succede. E lei era molto
stanca.
“Signorina si
prenda una vacanza, vedrà, le farà bene”. Si era sentita subito sollevata
Quello stesso pomeriggio
le suonò il campanello la proprietaria dell’Agenzia Immobiliare sotto casa. Al
suo fianco un operaio con una cassetta degli attrezzi:
“Siamo venuti a
vedere in che condizioni è l’appartamento al piano di sopra. Non vorremmo
spaventarla con i rumori, l’appartamento è disabitato da anni… l’unico erede, che vive in America, si è
finalmente deciso a venderlo.”
“ Come
disabitato? C’era il Cavaliere…”
La signora
dell’Agenzia scoppiò in una risata fragorosa:
“Anche lei si è
fatta prendere da quelle strane suggestioni… chissà forse le hanno raccontato
qualcosa…
“Qualcosa… cosa?”
“L’ultimo ad
abitare la casa è stato il Cavalier Riccomini. Quando la sua adorata moglie è
morta, dando alla luce il loro unico figlio, vissuto poche ore, lui si è
barricato in casa, uscendone solo per andare al mercato a comprare i limoni,
che sua moglie, quando era in vita, utilizzava per fare dei meravigliosi
centrotavola. Poi glieli portava al cimitero, al posto dei fiori. Un grande
amore. Era credo, la fine degli anni 20. Ecco, la Signora aveva una trentina
d’anni, proprio come lei, dicono che fosse molto bella. Dicono anche che lui
sia morto di crepacuore. Ma mi scusi, le sto rubando del tempo prezioso.
Arrivederci!”
Lei rientrò in
casa e si sedette sulla poltrona. Aveva
la testa vuota e le gambe molli: forse era sotto stress e aveva immaginato
tutto. Doveva prendersi solo un po’ di riposo, partire, svagarsi.
Sì, tutto era
sotto controllo, il respiro si era calmato. Il giorno dopo sarebbe andata a
prenotare una vacanza. Guardò le isole dalla finestra. Per un gioco di
correnti sembravano sospese nel cielo rosa del tramonto. “Sono fortunata ad
avere una vista così – pensò - molto fortunata. Ma me ne devo andare per un
po’, lontana da tutto questo.”
Si accorse di avere una sete terribile,
un’arsura che le seccava le labbra.
Andò in cucina e
si riempi un bicchiere d’acqua. Si fermò di soprassalto con il bicchiere a
mezz’aria: al centro del tavolo, in un piatto di
porcellana bianca, c’era una composizione di limoni.
E nella stanza,
quasi impercettibile, aleggiava un profumo di giacinti.
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