domenica 22 maggio 2016

REGINA (dalla raccolta "BAMBINE")





  
La mamma e il papà salirono sulla macchina. Dal finestrino aperto la mamma le dette un ultimo bacio: “Torniamo presto, sta’ tranquilla, staremo via solo qualche giorno. E potrai giocare con Bibi, vedrai ti troverai bene”.

Caterina rientrò in casa e si sedette su una sedia in cucina. Barbara stava impastando gli gnocchi sul tavolo di marmo. Le sue mani piccole e grassocce, incrostate di patate e farina, erano velocissime a trasformare quella massa morbida e informe in serpentelli fini che tagliava con il coltello in minuscoli rettangoli e poi, con un tocco lieve, faceva scivolare sul dorso di una forchetta creando dei piccoli solchi. “Così il ragù  può penetrare e condirli meglio” disse Barbara con un sorriso. Ma Caterina aveva la faccia seria.
“Su Bibi, andate in cameretta, così potete giocare un po’ prima di pranzo.”
Caterina seguì a malincuore Bibi e si sedette sul bordo del letto. La stanza era in penombra. Faceva caldo. I mobili erano dozzinali, di finto legno. In un angolo c’era una scrivania di teak e ferro, con una gamba zoppa e un  mattone rosso che cercava di bilanciarla. Ma dondolava e non ci si poteva appoggiare sopra. Bibi si era sdraiato a pancia in giù sul pavimento e giocava con i soldatini che aveva sistemato all’esterno di un fortino. Più lontano aveva messo gli apaches e i cavalli.
“Io sono una femmina, non mi piace giocare agli indiani” lei disse sottovoce, come a scusarsi.
Bibi sospirò, come un grande. Aveva i pantaloni corti e un paio di sandali di cuoio che gli stavano piccoli, il secondo dito del piede spuntava fuori di qualche centimetro. Caterina lo stava guardando.
“Ho il piede etrusco. Ce l’hanno le persone aristocratiche, è un segno di nobiltà L’ho letto sul libro di storia” disse Bibi,orgoglioso.
Caterina non rispose. Bibi le faceva un po’ pena. Era goffo e aveva lo sguardo spiritato. Aveva sentito dire dalla mamma che Barbara si era separata dal marito quando lui era molto piccolo e che adesso aveva un amante. Un ex pugile un po’ suonato, amico del papà. Che aveva moglie e figli e le passava un piccolo assegno mensile. Insomma Barbara era una “mantenuta”. Quella parola le suonava misteriosa e strana. Caterina non la capiva. Il padre di Bibi viveva in campagna e non aveva più voluto vedere suo figlio.
Che ci faceva adesso lei in quella casa con quel ragazzino strano e quella donnetta dimessa che impastava gnocchi? I suoi erano dovuti andare all’improvviso al Nord perché la nonna era stata ricoverata all’ospedale e aveva bisogno di assistenza. Genesio, il pugile suonato, aveva detto al papà che la sua donna sarebbe stata contentissima di ospitare la bambina.
“ Vedrai, la tratterà come  una principessa.”
La mamma prima di andarsene le aveva preparato una piccola valigia. Dentro ci aveva messo anche Regina, la bambola africana, ma Caterina si era vergognata a
tirarla fuori. Aveva sistemato le sue cose in un cassetto, ma  Regina no, l’aveva tenuta nascosta. Se Bibi l’avesse vista sicuramente l’avrebbe presa in giro.
Infatti. “E tu  con che cosa giochi? Alle bambole?” Bibi aveva la faccia strafottente e triste nello stesso tempo.
“Qualche volta, ma non sempre”.
Caterina pensò che nella stanza c’era un letto solo. E che d’estate lei era abituata a dormire solo con le mutandine.
Era un pensiero che la preoccupava.
Entrò Barbara pulendosi le mani sul grembiule. Aprì un cassetto del comò e tirò fuori una coppia di lenzuola bianche e due federe.
“Bibi, cambia le lenzuola e metti le federe ai cuscini. Dormirete uno a capo e l’altra a piedi. Va bene no, Caterina? Tanto siete magri. Per qualche giorno verrà Genesio a stare qui. Sta facendo un lavoro da manovale da queste parti. Sennò Bibi poteva dormire con me nel letto matrimoniale.”
Barbara aveva accennato una specie di sorriso, ma si vedeva che era imbarazzata.
Caterina pensò che Barbara era gentile. E che le faceva pena anche lei. Forse più di Bibi.


Gli gnocchi erano buoni, anche se il ragù era un po’ troppo liquido. Bibi mangiava con avidità, inforcando le posate senza grazia. Ma Caterina non aveva fame. Scostò il piatto.
“Basta così, grazie.”
“Vuoi una pesca, una banana? C’è un pezzo di anguria che ha portato ieri Genesio. Ti va?”
Caterina scosse la testa. Uscì sul balcone mentre Barbara lavava i piatti. C’erano due piante di geranio rinsecchite, una piantina di basilico e un cactus impolverato. Appoggiato in un angolo, un barbecue con una griglia arrugginita e un po’ di carbonella. Un pino storto ombreggiava il cortile e dai cespugli di oleandro rosa saliva il frinire delle cicale.
Il caldo era insopportabile.
Caterina si sedette su una sedia di plastica aspettando che il tempo passasse.
Bibi arrivò con una pila di giornalini e si accovacciò per terra con la schiena appoggiata al muro, sotto il vano della finestra. Lei prese a sfogliarne uno. Era la prima volta che guardava un giornalino da maschi. Meglio di niente. In un fumetto c’era uno sceriffo che con due pistole faceva secchi indiani e banditi. Bang bang. E un saloon dove i cow boys si andavano a ubriacare di scotch e di tequila.
Era una storia stupida.
Lei aveva finito di leggere da qualche giorno “ Piccole Donne”. La sua sorella preferita era Jo, l’aspirante scrittrice, quella che a un certo punto si fa tagliare i capelli per venderli e portare qualche soldo a casa. Ecco, lì Caterina si era commossa. E anche immedesimata molto. Lei non ce l’avrebbe mai fatta a sacrificare la sua coda di cavallo. Ci aveva messo più di un anno a farsela crescere. Insomma Jo era stata veramente coraggiosa. Invece i personaggi di quei fumetti in bianco e nero non le suscitavano nessuna emozione.
Niente.
Chissà se Bibi aveva mai letto un libro vero?
La mamma e il papà leggevano molto: il papà leggeva dei libri polizieschi dalla copertina gialla, la mamma aveva comprato una serie di romanzi americani dalla copertina verde che teneva ben allineati su un piano della libreria. In quella casa invece non c’era traccia di libri, di nessun colore. Non c’era nemmeno un libreria. Solo giornalini e rotocalchi femminili accatastati in un portariviste di rafia accanto alla televisione.


Dal campanile della chiesa si sentirono tre rintocchi cupi.
Il pomeriggio era appena cominciato.
“Bibi vieni ad asciugare le posate!”
Bibi si alzò controvoglia, con i suoi piedi etruschi scalzi.
Caterina rimase da sola, a guardare il pino storto, il cortile deserto e un’ape che ronzava appoggiata su una spina del cactus. Restò per un po’ a osservarla. Chissà se ce l’avrebbe fatta a staccarsi da lì, forse la spina l’aveva ferita. Invece l’ape riprese a volare e andò a posarsi sull’inflorescenza bianca del basilico.
Il campanile fece un solo rintocco. Le tre e mezzo. Dalla finestra di fronte si sentiva un televisore. O forse era una radio. Trasmetteva la cronaca di una corsa automobilistica.
Un vecchio dormiva a bocca aperta su una poltrona di pelle.
Un cane abbaiava.
Un aereo solcò il cielo lasciando dietro di sé una lunga  scia bianca.
Non c’era neanche una nuvola.
Caterina non si era mai accorta prima di quanto potesse essere lungo un pomeriggio d’estate.
E di quanto le mancasse la scuola.
Per consolarsi pensò che la nonna del Nord sarebbe guarita presto e i suoi genitori sarebbero venuti a prenderla prima di quanto sperasse.
E pensò anche che quella notte avrebbe indossato la maglietta rosa con la Sirenetta e si sarebbe rannicchiata, piccola piccola su un fianco, cercando di non intrecciare le sue gambe a quelle ossute di Bibi.
Forse avrebbe tirato fuori dalla valigia la bambola Regina.
Così. Per tenersi compagnia.
Quei pochi giorni sarebbero passati in fretta.
Anzi.
Sarebbero volati.








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