martedì 29 dicembre 2015

OGGETTO D'AMORE



Oggetto d’amore

Credevo d’averlo perduto

E mi stonava il concetto

Oggetto perché?

Il mio amore continua

Nel tempo e per sempre

Ma non lo ricevo

Non c’è

Ho perso un soggetto

Di abbracci e carezze

E parole d’affetto

E di voce che trema

Al pensiero

Della mia sofferenza

Adesso dov’è?


domenica 27 dicembre 2015

ACETO (dalla raccolta "BAMBINE)




Era successo di nuovo. La mamma era scivolata a terra, senza un lamento. Era pallida come uno straccio e aveva gli occhi chiusi. La bambina le mise un cuscino sotto la testa, poi salì su una sedia e prese dalla credenza la bottiglietta dell’aceto. Ormai c’era abituata: gliela faceva annusare e lei incominciava a fare quelle smorfie strane, prima di riaprire gli occhi e abbozzare un sorriso stanco. “Sta’ tranquilla, è passata…ora sto meglio”. La mamma si alzò appoggiandosi al tavolo e riprese a sfaccendare.
Il papà era appena rientrato ma sarebbe uscito appena finito di cenare, come tutte le sere. Andava a giocare a biliardo con gli amici in quel vecchio bar in centro e tornava a notte tarda quando lei già dormiva. Ogni volta la stessa scena: lui si infilava la giacca e la mamma si metteva il grembiule  prima di iniziare a lavare i piatti con affanno, la testa china e gli occhi lucidi.
“Non faccio tardi, ma non aspettarmi sveglia.” E si  metteva a cercare le chiavi della macchina.
Era una specie di rituale. Ogni volta lei cambiava posto, era diventata brava e il papà ci metteva un quarto d’ora prima di trovarle. Non si spazientiva quasi mai, quello era il piccolo pegno che doveva pagare per godersi una serata con gli amici, a fumare liberamente, senza dover andare sul balcone al freddo, e a esibirsi nei suoi virtuosismi con la stecca. La bambina stavolta le aveva nascoste sotto un cuscino del divano rosso.
“Domani bisogna pagare la rata della macchina. Dove li prendiamo i soldi?” la mamma aveva la voce fioca.
“Sta’ tranquilla, stasera vinco il torneo e ti porto a casa una bella sommetta.” Ecco aveva trovato le chiavi. Sorrise alla bambina e uscì fischiettando. Era allegro, lui era sempre allegro.

Alla televisione  non c’era niente di interessante. La bambina si lavò i denti e si mise il pigiama. Provò a giocare un po’ con le bambole, ma non ne aveva molta voglia. Le pettinò e le truccò con dei vecchi rossetti: un po’ di rosso sulle guance e sulle labbra, seguendo bene il contorno, con precisione, come aveva visto fare alla nonna che però aveva le labbra sottili e usciva sempre fuori dai bordi. “Le persone con le labbra sottili sono avare” aveva detto una volta il papà. Chissà, forse l’aveva detto perché la nonna non gli aveva voluto comprare quella nuova macchina blu e lui aveva dovuto firmare delle cambiali che erano dei grandi fogli con dei numeri sopra. Per questo la mamma ogni fine del mese era così triste e agitata. Perché scadeva la cambiale. Cam-bia-le. Scompose in sillabe quella parola. Che cosa cambia poi? Che uno è più triste. E se si spostava l’accento diventava un ordine: càmbiale. Secco, deciso. Le parole la incantavano. Da quando aveva imparato a leggere, il mondo era diventato più grande e più bello e lei stava scoprendo un sacco di cose. Le piacevano soprattutto le parole sdrucciole: libero, umido, pallido, unico… Gliele aveva insegnate da poco la maestra Michela, quella giovane che sostituiva la maestra Liliana che aspettava un bambino e aveva una grossa pancia tonda. Forse dentro ce n’erano due di bambini, addirittura tre, perché quella pancia era veramente enorme. Ma come può un bambino stare comodo così arrotolato? Non avrà freddo? E paura del buio? Lei ancora aveva paura del buio, anche se era molto coraggiosa e da un anno dormiva da sola nella cameretta che le avevano fatto trovare al ritorno dalle vacanze in montagna con i nonni. Prima di andare a dormire controllava per almeno quattro o cinque volte che la porta della camera dei genitori fosse aperta, poi si addormentava, abbracciata al suo peluche preferito (un orso tutto spelacchiato che si chiamava Ugo ) e a Regina, la bambola africana. Ma a volte si svegliava nel cuore della notte e al buio, scalza e in punta di piedi si avvicinava alla stanza dei suoi. Solo una volta
aveva trovato la porta chiusa. Loro ridevano piano e sussurravano. La mamma sembrava contenta. Poi era sceso il silenzio e il papà aveva emesso una specie di lungo lamento, che un po’ l’aveva spaventata. Di corsa era ritornata nel suo letto, ma da quella notte i controlli erano aumentati e questo la faceva addormentare sempre più tardi, Qualche volta si assopiva in classe con la testa sul banco e la maestra giovane la svegliava con una carezza e poi le regalava una caramella. Chissà perché era così gentile con lei, a volte si vergognava un po’ di quelle attenzioni, si era accorta che i suoi compagni di classe le erano diventati un po’ ostili e durante la ricreazione non la invitavano più a giocare. O forse era lei che preferiva starsene in disparte a mangiare la merenda… non ci capiva più niente, si sentiva un po’ triste e molto stanca. La mamma aveva preso a darle uno sciroppo molto amaro, a base di pesce, non sapeva quale, ma le faceva schifo e ogni mattina erano pianti. Dentro c’erano delle vitamine che fanno bene alle ossa e alla vista, ma non potevano inventarsi qualcosa di più dolce, al sapore di fragola o mirtillo, come lo sciroppo per la tosse?

Il papà rientrò molto tardi. Aveva aspettato che lui tornasse per poter fare i primi controlli. Sentì per molte volte l’ascensore fermarsi al piano, ma non era mai lui. Aveva sonno ma per non addormentarsi si mise a leggere “Topolino”. Ecco finalmente il rumore delle chiavi che giravano nella serratura. Spense la luce. Il papà era molto silenzioso. Appena entrava si levava le scarpe, poi andava in bagno e dopo poco entrava in camera da letto. Sempre così, ogni volta. Quella sera invece andò subito in camera. Sentì che rideva contento e che subito dopo la mamma batteva le mani. Anche lei sembrava contenta. Si misero a parlare a bassa voce e lei  non riusciva a capire niente, ecco adesso il papà tirava lo sciacquone e la mamma andava in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, il giorno dopo era domenica, che bello, avrebbe potuto dormire di più, l’ascensore di nuovo, si vede che i vicini avevano dato una festa, questa volta scendeva, lei non aveva paura dell’ascensore, a volte lo prendeva da sola quando tornava da scuola, mica poteva fare sei piani a piedi, ecco adesso era calato il silenzio, i suoi genitori avevano spento l’abat jour, si vedeva solo la luce fredda dell’insegna del bar che si accendeva e spegneva, avrebbe dovuto fare il primo controllo, no ancora un momento, stava così bene al caldo, si era rannicchiata su un fianco, la guancia della bambola aveva un buon odore dolce, chissà perché le bambole profumano, i capelli  le facevano solletico, fece una smorfia, devo alzarmi, pensò, adesso mi alzo, ancora un momento, il silenzio era perfetto, sentì che il papà russava, quindi la porta era aperta, chissà forse poteva rimandare il controllo, magari all’alba, con quella luce livida che faceva sembrare tutto bianco e nero con un po’ di grigio, intanto si sarebbe riposata un po’, si sentiva al sicuro, tutti erano a casa, tutto era al suo posto, l’ascensore era fermo al piano, lei era al calduccio e domani è domenica, pensò, la mamma non sviene, non è mai successo di domenica, domani facciamo le frittelle….

martedì 15 dicembre 2015

TRE POESIE





Spezzare la crosta secca del consueto
grattando in superficie
fino a trovare l’umido
che linfa o acqua sorgiva
o pioggia penetrata da fessure
scorre a nutrire
piccole creature

è un gesto semplice
da fare con le dita
senza forza o affanno da patire
ma richiede coraggio di Titani

bisogna prepararlo con cura

contare i respiri
rallentare il passo
soffermarsi a guardare
una piccola foglia che trema
lucidare lo specchio
di un cristallo di sabbia
ascoltando le maree che contiene
accarezzare un vecchio gatto
dal pelo arruffato
onorandolo come un re
genuflettersi al primo raggio di sole
accendere una candela
il venerdì sera
alla prima stella

pregare

e poi attizzare un fuoco
che bruci il rimpianto
e su quella cenere costruire una fortezza








 Ho superato la linea
quella sottile
di lana di vetro
è stato un attimo
che ha lasciato il segno
tutto è alle spalle
il prima è scivolato via
il poi mi incuriosisce
il dolore non è più una tenaglia
ma un tarlo leggero
che mangia briciole
di legno
quasi lo nutro
di proposito
per distrarlo

e adesso?

Osare piroette improvvise
prendere appunti
regolare la fiamma
distribuire doni

è arduo il valico
e ghiacciato di sguardi
ma io mi scaldo da sola
con le mie poesie
avvoltolate nella lana.








Prendono forma
all'improvviso
voci
a reclamarmi ascolto
senza chiedere permesso
sovrapposte in musica stonata

le dita scorrono
a dipanare i suoni
dalla matassa ingarbugliata
seta
a volte lino
o tela grezza
possibilmente chiara
fino a comporre gesti
in alfabeto nuovo
che aprono orizzonti
e spaziano nel cielo

questo per me è poesia
casa
riparo
conforto alla paura 
che scompiglia
disegno che contiene
trame e  colori tutti
a impreziosirmi i tratti
e a rendermi presente
al flusso che mi scorre
di sogno e meraviglia.