martedì 29 dicembre 2015

OGGETTO D'AMORE



Oggetto d’amore

Credevo d’averlo perduto

E mi stonava il concetto

Oggetto perché?

Il mio amore continua

Nel tempo e per sempre

Ma non lo ricevo

Non c’è

Ho perso un soggetto

Di abbracci e carezze

E parole d’affetto

E di voce che trema

Al pensiero

Della mia sofferenza

Adesso dov’è?


domenica 27 dicembre 2015

ACETO (dalla raccolta "BAMBINE)




Era successo di nuovo. La mamma era scivolata a terra, senza un lamento. Era pallida come uno straccio e aveva gli occhi chiusi. La bambina le mise un cuscino sotto la testa, poi salì su una sedia e prese dalla credenza la bottiglietta dell’aceto. Ormai c’era abituata: gliela faceva annusare e lei incominciava a fare quelle smorfie strane, prima di riaprire gli occhi e abbozzare un sorriso stanco. “Sta’ tranquilla, è passata…ora sto meglio”. La mamma si alzò appoggiandosi al tavolo e riprese a sfaccendare.
Il papà era appena rientrato ma sarebbe uscito appena finito di cenare, come tutte le sere. Andava a giocare a biliardo con gli amici in quel vecchio bar in centro e tornava a notte tarda quando lei già dormiva. Ogni volta la stessa scena: lui si infilava la giacca e la mamma si metteva il grembiule  prima di iniziare a lavare i piatti con affanno, la testa china e gli occhi lucidi.
“Non faccio tardi, ma non aspettarmi sveglia.” E si  metteva a cercare le chiavi della macchina.
Era una specie di rituale. Ogni volta lei cambiava posto, era diventata brava e il papà ci metteva un quarto d’ora prima di trovarle. Non si spazientiva quasi mai, quello era il piccolo pegno che doveva pagare per godersi una serata con gli amici, a fumare liberamente, senza dover andare sul balcone al freddo, e a esibirsi nei suoi virtuosismi con la stecca. La bambina stavolta le aveva nascoste sotto un cuscino del divano rosso.
“Domani bisogna pagare la rata della macchina. Dove li prendiamo i soldi?” la mamma aveva la voce fioca.
“Sta’ tranquilla, stasera vinco il torneo e ti porto a casa una bella sommetta.” Ecco aveva trovato le chiavi. Sorrise alla bambina e uscì fischiettando. Era allegro, lui era sempre allegro.

Alla televisione  non c’era niente di interessante. La bambina si lavò i denti e si mise il pigiama. Provò a giocare un po’ con le bambole, ma non ne aveva molta voglia. Le pettinò e le truccò con dei vecchi rossetti: un po’ di rosso sulle guance e sulle labbra, seguendo bene il contorno, con precisione, come aveva visto fare alla nonna che però aveva le labbra sottili e usciva sempre fuori dai bordi. “Le persone con le labbra sottili sono avare” aveva detto una volta il papà. Chissà, forse l’aveva detto perché la nonna non gli aveva voluto comprare quella nuova macchina blu e lui aveva dovuto firmare delle cambiali che erano dei grandi fogli con dei numeri sopra. Per questo la mamma ogni fine del mese era così triste e agitata. Perché scadeva la cambiale. Cam-bia-le. Scompose in sillabe quella parola. Che cosa cambia poi? Che uno è più triste. E se si spostava l’accento diventava un ordine: càmbiale. Secco, deciso. Le parole la incantavano. Da quando aveva imparato a leggere, il mondo era diventato più grande e più bello e lei stava scoprendo un sacco di cose. Le piacevano soprattutto le parole sdrucciole: libero, umido, pallido, unico… Gliele aveva insegnate da poco la maestra Michela, quella giovane che sostituiva la maestra Liliana che aspettava un bambino e aveva una grossa pancia tonda. Forse dentro ce n’erano due di bambini, addirittura tre, perché quella pancia era veramente enorme. Ma come può un bambino stare comodo così arrotolato? Non avrà freddo? E paura del buio? Lei ancora aveva paura del buio, anche se era molto coraggiosa e da un anno dormiva da sola nella cameretta che le avevano fatto trovare al ritorno dalle vacanze in montagna con i nonni. Prima di andare a dormire controllava per almeno quattro o cinque volte che la porta della camera dei genitori fosse aperta, poi si addormentava, abbracciata al suo peluche preferito (un orso tutto spelacchiato che si chiamava Ugo ) e a Regina, la bambola africana. Ma a volte si svegliava nel cuore della notte e al buio, scalza e in punta di piedi si avvicinava alla stanza dei suoi. Solo una volta
aveva trovato la porta chiusa. Loro ridevano piano e sussurravano. La mamma sembrava contenta. Poi era sceso il silenzio e il papà aveva emesso una specie di lungo lamento, che un po’ l’aveva spaventata. Di corsa era ritornata nel suo letto, ma da quella notte i controlli erano aumentati e questo la faceva addormentare sempre più tardi, Qualche volta si assopiva in classe con la testa sul banco e la maestra giovane la svegliava con una carezza e poi le regalava una caramella. Chissà perché era così gentile con lei, a volte si vergognava un po’ di quelle attenzioni, si era accorta che i suoi compagni di classe le erano diventati un po’ ostili e durante la ricreazione non la invitavano più a giocare. O forse era lei che preferiva starsene in disparte a mangiare la merenda… non ci capiva più niente, si sentiva un po’ triste e molto stanca. La mamma aveva preso a darle uno sciroppo molto amaro, a base di pesce, non sapeva quale, ma le faceva schifo e ogni mattina erano pianti. Dentro c’erano delle vitamine che fanno bene alle ossa e alla vista, ma non potevano inventarsi qualcosa di più dolce, al sapore di fragola o mirtillo, come lo sciroppo per la tosse?

Il papà rientrò molto tardi. Aveva aspettato che lui tornasse per poter fare i primi controlli. Sentì per molte volte l’ascensore fermarsi al piano, ma non era mai lui. Aveva sonno ma per non addormentarsi si mise a leggere “Topolino”. Ecco finalmente il rumore delle chiavi che giravano nella serratura. Spense la luce. Il papà era molto silenzioso. Appena entrava si levava le scarpe, poi andava in bagno e dopo poco entrava in camera da letto. Sempre così, ogni volta. Quella sera invece andò subito in camera. Sentì che rideva contento e che subito dopo la mamma batteva le mani. Anche lei sembrava contenta. Si misero a parlare a bassa voce e lei  non riusciva a capire niente, ecco adesso il papà tirava lo sciacquone e la mamma andava in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, il giorno dopo era domenica, che bello, avrebbe potuto dormire di più, l’ascensore di nuovo, si vede che i vicini avevano dato una festa, questa volta scendeva, lei non aveva paura dell’ascensore, a volte lo prendeva da sola quando tornava da scuola, mica poteva fare sei piani a piedi, ecco adesso era calato il silenzio, i suoi genitori avevano spento l’abat jour, si vedeva solo la luce fredda dell’insegna del bar che si accendeva e spegneva, avrebbe dovuto fare il primo controllo, no ancora un momento, stava così bene al caldo, si era rannicchiata su un fianco, la guancia della bambola aveva un buon odore dolce, chissà perché le bambole profumano, i capelli  le facevano solletico, fece una smorfia, devo alzarmi, pensò, adesso mi alzo, ancora un momento, il silenzio era perfetto, sentì che il papà russava, quindi la porta era aperta, chissà forse poteva rimandare il controllo, magari all’alba, con quella luce livida che faceva sembrare tutto bianco e nero con un po’ di grigio, intanto si sarebbe riposata un po’, si sentiva al sicuro, tutti erano a casa, tutto era al suo posto, l’ascensore era fermo al piano, lei era al calduccio e domani è domenica, pensò, la mamma non sviene, non è mai successo di domenica, domani facciamo le frittelle….

martedì 15 dicembre 2015

TRE POESIE





Spezzare la crosta secca del consueto
grattando in superficie
fino a trovare l’umido
che linfa o acqua sorgiva
o pioggia penetrata da fessure
scorre a nutrire
piccole creature

è un gesto semplice
da fare con le dita
senza forza o affanno da patire
ma richiede coraggio di Titani

bisogna prepararlo con cura

contare i respiri
rallentare il passo
soffermarsi a guardare
una piccola foglia che trema
lucidare lo specchio
di un cristallo di sabbia
ascoltando le maree che contiene
accarezzare un vecchio gatto
dal pelo arruffato
onorandolo come un re
genuflettersi al primo raggio di sole
accendere una candela
il venerdì sera
alla prima stella

pregare

e poi attizzare un fuoco
che bruci il rimpianto
e su quella cenere costruire una fortezza








 Ho superato la linea
quella sottile
di lana di vetro
è stato un attimo
che ha lasciato il segno
tutto è alle spalle
il prima è scivolato via
il poi mi incuriosisce
il dolore non è più una tenaglia
ma un tarlo leggero
che mangia briciole
di legno
quasi lo nutro
di proposito
per distrarlo

e adesso?

Osare piroette improvvise
prendere appunti
regolare la fiamma
distribuire doni

è arduo il valico
e ghiacciato di sguardi
ma io mi scaldo da sola
con le mie poesie
avvoltolate nella lana.








Prendono forma
all'improvviso
voci
a reclamarmi ascolto
senza chiedere permesso
sovrapposte in musica stonata

le dita scorrono
a dipanare i suoni
dalla matassa ingarbugliata
seta
a volte lino
o tela grezza
possibilmente chiara
fino a comporre gesti
in alfabeto nuovo
che aprono orizzonti
e spaziano nel cielo

questo per me è poesia
casa
riparo
conforto alla paura 
che scompiglia
disegno che contiene
trame e  colori tutti
a impreziosirmi i tratti
e a rendermi presente
al flusso che mi scorre
di sogno e meraviglia.































































lunedì 30 novembre 2015

PRIMA DEL DOLORE (UNA POESIA)



 
Ti regalavo poesie
incartate di stagnola
che ti mettevo sotto il piatto
ai compleanni

 

per un attimo la luce si accendeva
nel tuo sguardo affaccendato ad altro
poi riponevi le mani
a impastare dura la tua rabbia
e io giocavo da sola
con i bottoni a forma di gioiello

 

non sono riuscita a renderti felice
nemmeno se facevo capriole
ho smesso presto
per non stranire l´aria
sempre elettrica di tuono

 

non hai saputo consolare i miei terrori
quando io mi alzavo scalza
al livido dell´alba
per vederti dormire a bocca aperta
nell´unica casa degna di quel nome

 

e dopo è stato tutto uno spavento
di valige da disfare in alberghi senza bagno
e rughe amare ai lati della bocca
fino al dolore folle
quello che non si può chiamare
ed era solo tuo nel petto
io ero dietro a proteggerti le spalle
dai suoi colpi asciutti
a farmi ombra buona che non chiede

 

adesso ho ripreso a fare capriole
e rido rumorosa con tutte le vocali
mentre provo a farti carezze che mi sfuggi
sui capelli slavati di colore
come quelli dei neonati

 

e con le dita ti spiano le rughe sulla fronte
e tiro in su il triangolo del viso
a farti bella ancora come una regina

forse era quello che volevi
io diventata vecchia e tu bambina
 

e non mi aspetto più i sorrisi
che non hai saputo regalarmi

 

mi basta ogni minuto che sei viva.


mercoledì 11 novembre 2015

IL LUOGO COMPASSIONEVOLE



Succede che tu riprenda a studiare, nonostante gli anni. Con più gusto e attenzione di una volta. Una scelta del cuore. Seguire finalmente fino in fondo le tue predisposizioni, dar loro spazio e approfondimento, impegnarti e non sentirti strana fra compagni di studio molto più giovani, anzi, sentirti a casa, in un luogo di scambio di competenze ed emozioni. Prendere appunti a mano, provando la gioia di scrivere, come hai sempre fatto al Liceo e all’Università, e andare a rileggerli in treno, tornando a casa,  quasi due ore di viaggio che volano, dopo l’intensità di tre giornate trascorse ad imparare, ancora e ancora. E succede che fra tutte le lezioni, intense, interessanti, a volte complicate, una ti catturi più delle altre, ti faccia battere il cuore, ti faccia emozionare. L’insegnante è giovane e ha degli occhi chiari e profondi. E’ generoso, non si risparmia, parla, spiega, argomenta con precisione, competenza e soprattutto grande passione. La materia la padroneggia, l’ha fatta sua, e per questo riesce a coinvolgerti, a coinvolgere tutti così tanto. E appena torni  ordini subito su Internet il libro da lui curato e te lo leggi di un fiato. Trovi l’eco della sua voce e della sua passione e i concetti sulla carta ti rimangono impressi, come fossero marcati a fuoco, indelebili, nella mente e nel cuore. E fra gli esercizi suggeriti sulla compassione, perché è la compassione il tema della lezione, tu ne prediliga uno e da quel giorno lo pratichi regolarmente. E’ l’esercizio del “luogo compassionevole”. Si tratta di sedersi a occhi chiusi, di seguire per qualche attimo il respiro, e di immaginare un luogo in cui ti  senta o ti sia sentita amata, al sicuro, protetta. Un luogo che ti trasmetta agio, gioia, sicurezza. E che, questa è la cosa strana, provi amore per te e voglia che tu sia felice, e si adoperi, con il suo semplice essere lì, a procurarti pace, benessere e protezione. Un luogo sorgente di infinita compassione e  desiderio che tu stia bene, completamente, nel corpo e nella mente. La prima volta che hai provato a fare questo esercizio molti luoghi si sono accavallati nella tua mente ed erano tutti luoghi molto belli, legati soprattutto ai  viaggi, oppure luoghi che ami del tuo paese, in collina, con la vista sul mare. Ma nessuno ti procurava quella sensazione di amore incondizionato, nessuno ti faceva sentire al sicuro, protetta e circondata da quell’atmosfera di pace e benessere che veniva suggerita dall’esercizio. Finché all’improvviso ha fatto capolino un’immagine vivida, molto vivida.
Un prato in Sardegna. Primavera. Luce del mattino. Uccelli che cantano. Un albero di ulivo. Tu bambina vestita di chiaro. Il tepore del sole sulla pelle. E all’improvviso quella sensazione: di bellezza pura, incontaminata, luminosa e di amore che avvolgeva tutto e da cui ti sentivi protetta. Eri al sicuro, come se sulla terra quello fosse il luogo eletto, il luogo deputato a renderti felice, di quella felicità che solo i bambini provano, fatta di cose semplici e belle, e che purtroppo poi si dimentica, presi dall’affanno della mente. E ricordi che tu, bambina, non hai pensato: che bell’albero, che bel prato, come sono felice! No. Eri totalmente presente, con tutti i sensi aperti ad accogliere quella sensazione di amore e meraviglia. Senza pensare. Spalancata all’esperienza, pura. Quel luogo si prendeva cura di te e tu ti abbandonavi alla sua cura. Ecco, in quel luogo puoi tornare ogni giorno, in ogni momento. E ogni volta riprovare quelle sensazioni e quelle emozioni. Il luogo compassionevole. Che si prende cura di te. E ringrazi dentro di te il professore dagli occhi chiari e durante l’esercizio gli mandi un po’ di quell’amore.

martedì 3 novembre 2015

AMERICA ( Non sono un Bonsai)



E’ emozionante sapere che c’è qualcuno che legge assiduamente questo blog dagli USA. Non conosco nessuno che viva lì. E sarei veramente curiosa di sapere cosa pensa questa persona delle cose che scrivo. Non sono mai stata negli Stati Uniti, è uno di quei viaggi a lungo desiderati e sempre rimandati. E spesso ho sognato N.Y. Sogni belli, luminosi e spaziosi. Cammino per le strade e le riconosco, mi ci trovo a mio agio, centinaia di film visti nella vita mi hanno fatto imparare nomi di piazze e viali, Central Park è ormai un luogo caro e persino Ground Zero è stato protagonista una notte di un mio sogno allegro. Ho già in mente il viaggio che farò, e non ho dubbi che lo farò, ed è un viaggio strano, alla ricerca delle mie radici poetiche e artistiche. Vorrei andare a visitare la casa- atelier  di Louise Bourgeois, artista meravigliosa che ho molto amato. E poi fare una capatina in Massachusetts  ad Amherst, per rendere omaggio ad Emily Dickinson. La sua casa bianca in mezzo al verde, con le finestre ampie affacciate sul giardino, e la sua piccola stanza spartana e linda, le conosco a memoria, descritte così bene nelle sue poesie, e vorrei posare un fiore di campo bianco, come le sue vesti, sulla sua tomba. E poi andrei in New Mexico, a farmi abbagliare dalla luce del deserto che tanto ha affascinato Georgia O’Keeffe, e visitare il Museo a lei dedicato.
                        I fiori di Georgia O' Keeffe
Da lì farei un salto in Arizona per godere della meraviglia del Gran Canyon e per un attimo mi sentirei come Thelma e Louise, libera e selvaggia, con la voglia matta di volare fra quelle gole. Luce, aria asciutta, silenzio, spazio infinito, pace. Tutte artiste donne? E gli uomini, è possibile che nessun americano mi abbia ispirata? Certo che no, non è possibile. Andrei a visitare i luoghi di Raymond Carver, la sua casa di luce fra due fiumi a Port Angeles, e mi commuoverei pensando alla sua dolcezza, alla sua mitezza, alla sua generosità di scrittore e di uomo. E tornata a N.Y, prima di ripartire, farei una capatina alla libreria di Ferlinghetti e mi emozionerei al pensiero di tutti gli artisti della beat generation passati di lì, notti intere a fumare, bere e declamare poesie, ascoltando dell’ottima musica.
Lawrence Ferlinghetti nella sua libreria
E tutto il resto? L’America è immensa e naturalmente dovrò fare delle scelte. E perché no un bel viaggio coast to coast, in autobus Greyhound, guardando incantata il paesaggio dal finestrino, con calma, assaporando i cambiamenti notte-giorno, freddo-caldo, deserto-bosco, città-villaggio e così via? E come ultimo omaggio alle radici, quelle di sangue e di sudore, una visita a Ellis Island, cercando di imprimermi nel cuore e nella mente le immagini degli oggetti e delle foto di quegli emigranti pezzenti e coraggiosi, fra i quali anche il mio nonno paterno, che hanno contribuito alla grandezza dell’America.
USA, prima o poi verrò. E tu, lettore o lettrice del mio blog, continua a leggermi, spero che le mie parole qualche volta ti facciano sorridere o commuovere, o semplicemente ti aiutino a prendere la vita con un pochino più di fiducia e di dolcezza. E intanto goditi l’America,  anche per me.   




NON SONO UN BONSAI





 Non sono un Bonsai
ho bisogno di spazio e di luce
non voglio restarmene chiusa
a soffocare radici
con foglie sofferte
e piccolo tronco contorto
rinunciare a scavare i miei spazi
in solchi di meraviglia
e muovere mani e caviglie
in danza sciamana
neppure mi posso piegare
mansueta
gentile alla cura
quel poco che basta
di acqua e di vaso
più piccolo è meglio
fa effetto bambino
lasciatemi libera
di chioma e di vento
di sole e di pioggia
da assorbire rapita
voglio riprendermi vita
nei gesti e nel canto
nella preghiera al mattino
nel collo che tende su in alto
nei piedi che lasciano tracce
nelle parole baciate
nell’erta salita
che dopo diventa splendore
mi abbraccio stupita
mi perdo nell’aria
mi accendo di arancio
e di porpora al sole
non sono un Bonsai
minuta creatura
ridotta a un’immagine
di finta armonia
io sono allegria
che espande i confini
di lingue e colori
e gioca con nastri di raso
in piroette radiose
salvando il dolore
dal buio e dall’oblio
c’è stato l’amore
a nutrirmi la terra
aspetto con calma
stagione più bella
per fiorire di nuovo
al tempo che è mio.

mercoledì 28 ottobre 2015

PASSAGGI




Ci sono mesi di passaggio. Da una stagione all’altra, da una situazione all’altra, da una consapevolezza a un’altra. Questo Ottobre per me è stato così. Un mese complicato, pieno di impicci, affanni, contrattempi, scivoloni, non solo metaforici. Un mese in cui mi sono sentita strattonata. Niente di grave. Semplicemente la vita che scorre come un fiume e a volte incontra degli ingorghi, dei mulinelli, dei tronchi messi di traverso. E tutto all’improvviso sembra diventare più difficile e, nel tentativo di sbrogliare la matassa, le nostre dita frettolose e tremanti non fanno altro che  renderla ancora più intricata, con il rischio di creare dei nodi molto difficili da sciogliere. Tante cose, tutte insieme e apparentemente estranee fra di loro. Cercare un senso diventa un’impresa assai difficile e l’unico modo per non restare travolti è aspettare che passi, accettare che questo momento è così, imperfetto, sgradevole, complicato, ma è così. E quando si riesce a formulare questo pensiero “è così”, il carico diventa meno pesante, lo teniamo sulle spalle ma con la schiena morbida, i muscoli rilassati, come quelli di un atleta allenato, e la strada su, in salita, può anche diventare una passeggiata gradevole, se solo riusciamo a dimenticare per un po’ il peso e a goderci il panorama e gli incontri sul cammino.
Ottobre è quasi passato. E io comunque gli sono grata, perché è stato un mese lungo e ricco di avvenimenti. E ho imparato che la paura della paura è solo un fantasma, e come tutti i fantasmi, prima o poi si dilegua.


 


Io madre dei gatti,
dei comignoli di pietra
e a volte della luna
mi specchio nelle lame dei coltelli
e getto sale dietro le mie spalle
ma come Ofelia impazzita
di notte dimentico chi sono
e nei tuoi occhi annego di acquitrino

poi mi basta un anticipo di sole
o
pagliuzze di fieno rinsecchite
trasportate da intrepidi cortei
in cerimoni
a di formiche
per sentire di nuovo sotto i piedi
la terra dura in crosta a sostenermi
come corazza di vecchia tartaruga
dal ventre morbido di seta

allora rido e abbandonando l’ombra
accarezzo la lanugine dei prati
scuoto i capelli ricci inanellati
che da ragazza ho tinto di acajou
nuova mi faccio anch’io
cambiando nome
e dondolando pendenti di ciliegie
regina mi proclamo 
con scettro di bambù


finito è il tempo scarno degli addii
 sia fatta luce tersa
Ofelia non c’è più.

mercoledì 23 settembre 2015

MI SONO PERSA GLI OCCHI: quattro poesie



I
Mi sono persa gli occhi
ho usato gli altri sensi
soprattutto l’anima che sale
sulle infinite rampe
a genuflettere i tramonti
e ho ascoltato brusii
fra le paludi
di vita che gracida e sussurra
e campane di molte chiese
bianche

carezze poche
ruvide di carta
in fogli accatastati
fra le righe

ho annusato dolore
in rancida alchimia
di chimica stravolta
ma anche viole del pensiero
e molte rose
quelle sfatte nell’orto
di un convento
rosso sacrocuore

ho succhiato pistilli
dolci come il miele
e masticato fili d’erba
al ronzio di un prato
che pungeva appena
di stecchi sulla schiena

le rondini erano punti
lontani in sospensione
i gabbiani virgole argentate
le nuvole cavalli
e draghi fra i soffioni

è stata un dono forse
la miopia
a rendermi curiosa
più degli altri
e a farmi riposare
gli occhi stanchi
in pozze di poesia. 


II
Svegliarsi
dopo anni
di sonno
frammentato
e giorno
confuso
con la notte
affacciarsi nuova
alla finestra
e accarezzare
gli alberi con gli occhi
fino a piegarne le cime
con un soffio

parentesi disfatta
incantesimo interrotto
la strega buia
si è dileguata
a un tocco semplice
di mano
e al suono di un mantra
di perdono

riprendere a sgranare le stagioni
in una conta soddisfatta
di giorni
che avanzano succosi
alla conquista di altri giorni

correre
flettendo sinuose le caviglie
arrendersi al giardino
e alle sue meraviglie
e al sole che riscalda
senza abbaglio
in pace
finalmente

fare le fusa
come un gatto.





III
Vorrei farmi specchio
ed eco gentile
rimandi
di luce benevola e calda
senza alludere al gelo
in agguato

aspettare
al tiepido di mani guantate
che il fiato rapprenda
e l’umido svapori
in gocce di nebbia
sulla sciarpa di lana infeltrita

e poi srotolare sorrisi
ai passanti
salutare cani  e vecchi
che camminano stanchi
facendomi carico
delle ossa loro
doloranti
in punta di spada appuntita

ma a volte il viso scolora
gli occhi intravedono ombre
e il grigio diventa tiranno
a ghignare malvagio
dura poco
poco più di un istante
diviso in montagne
soltanto un’inezia
e riprendersi dopo
e’ un tic di ciglia
sbattute due volte
il segnale
che riprende la festa. 





 IV
Mi espando
a  cielo aperto
circolo polare
e deserto
oceani e paludi
io farfalla o rondine
o spora
in abiti cangianti
a piedi nudi
vuoto d’ aria in piena luce
a domare le tempeste
fitta al petto d’allegria
bramosia di tutto un po’
soprattutto di magia.