martedì 27 settembre 2016

MI HAI APPARECCHIATO IL TEMPO (Due poesie)


Mi hai apparecchiato il tempo

Su una tavola distratta

Di piatti e bicchieri spaiati

Il cibo era buono

Intriso d’avventura

Con picchi speziati di paura

Di notte mi stiravi il letto

Per scaldare le lenzuola

Il vento fischiava

Quello di Maestrale

Nella casa spoglia

Di mobili comprati

E restituiti a rate

Ma non c’era un ordine

Alle cose

Tutto accadeva alla rinfusa

E io per consolarmi

Mi raccontavo filastrocche

Innamorata del vostro amarvi

Con me che vi guardavo

Sentendomi baciata

Dalla sorte

Ho dovuto fare i conti

E restituire gli interessi

A quello strozzino

Che sia chiama Errore

Finalmente in pari

Con gli angoli smussati

A tutto tondo

E pianure di mare

All’orizzonte

Dall’alto controllo le tempeste

Mi sono fatta vedetta

E la mia casa è un faro
foto di Olivia Casari

Speravo
Di rendervi felici

Scrivevo poesie

Nei viaggi in macchina

Vi cantavo sempre

La stessa canzone francese

A scuola ero la migliore

Me ne stavo in silenzio

Ad ascoltare i vostri eloqui

Con gli occhi lucidi

D’orgoglio

Una bambina buona

A volte vi facevo una carezza

Per consolare i vostri affanni

E preparavo le valige

Senza mettere il superfluo

Vi leggevo il labiale

Quando mentivate

Senza pronunciare

Neanche una parola

Riempivo solerte

Sacchi di sabbia

Per rinforzare gli argini

Allenata alle emergenze

Conoscevo in anticipo i gesti

E adesso

Che la calma mi inquieta

Trovo un pretesto

Per smuovere le acque

Troppo ferme

Di palude

Non accorgendomi che invece

Sono di lago calmo

Che non ha bisogno

Di bufere



 













































mercoledì 21 settembre 2016

IL CORPO DEL DOLORE ( Due Poesie)




Ponza

 Il corpo del dolore

Come tutti i corpi

Si decompone

Non è eterno

Si trasforma

Sfuma

Prepotente all’inizio

Vitale come un neonato

Si nutre famelico

Del tuo latte

Ti prosciuga

Fino a lasciarti spossato

Nella tregua effimera

Di un sogno



Al risveglio

Spilli dappertutto

Retrogusto migrante

D’angoscia

Che non sai collocare

Non nella gola

E neppure nel petto

Forse in una spalla contratta

O nel nodo

Che avviluppa lo stomaco

Ben stretto

Come fagotto in ostaggio



Poi si acquieta

E al suo posto

Una saudade maldestra

Che rende lucidi gli occhi

E i gesti più ampi

Si ritorna alle azioni normali

Con una labile eco

Di fastidiose pendenze



Infine svanisce

Come vento fastidioso che cala

Di nuovo bonaccia

E il mare appena increspato

Invita ad un tuffo di vita

  

Risacca



******

Itaca

Un’isola mi potrebbe salvare
Una baia tonda
Un grappolo di case bianche
Gli aranci in fiore
Uno spazio morbido
Di profumi
I portoni sempre aperti
Le vecchie sorridenti sugli scalini
I gatti
I tavolini blu
Le sedie di paglia
Un albero di fico
E forse un platano
Una piazza
La calma del tramonto
Il brusio dell’alba
Il mare dopo un temporale
Color piombo
Io che non sono di mare
Alzarmi presto la mattina
Scrivere
Dopo il pane
E il riposo del sole alto
Al fresco delle lenzuola
Fino a sera
E non sentirmi più straniera
Ovunque
E sola
Ma figlia di qualcuno
Che mi accarezzi
Con le mani  bianche
E mi consoli
Figlia
Non avere paura
Mai più
Ci sono io
















mercoledì 14 settembre 2016

HO IL FUOCO NEI MIEI SEGNI (Tre poesie)




 Ho bisogno
Di riempirmi
Gli occhi
Di bello
Non importa quale
Questo o quello
Che sia sublime e vero
Una sferzata all’anima
Un attimo sospeso
Un’apertura di cuore
E i sensi che sobbalzano
Di stupore
 Odori
Suoni
Colori
In un caleidoscopio felice
Di bambina
Pietruzze vivide
Da comporre con un gesto
All’infinito
Basta guardare
Basta sentire
E il vento ci porterà meraviglie


*******


Grata di quest’affanno

Che mi fa viva

E non mi rende fuggitiva

Ma rabdomante attenta

A cercare la fonte del dolore



A volte si nasconde

Nel profondo di un passato

Illuminato appena

Da una luce fioca



Altre volte si rivela

Nei gesti bruschi

Nelle parole poco accorte

O nell’assenza voluta

Di un sorriso



Un fastidio

Che toglie il brio

Appena spuntato

Come una foglia nuova

Un diserbante

Cattivo



Scrollarselo di dosso

Con movimenti piani

E attenti

Quasi uno spolverio

E’ il compito che preme

E va imparato

Prima che lui

L’affanno

Poco a poco

Indisturbato

Scavi cunicoli di danno


*******






 Ho il fuoco nei miei segni
E bruciature antiche di dolore
Non ha lenito arsure
L’acqua dolce
Ma aumentato la sete
In illusione di freschezza
I cerchi li attraverso
Con le fiamme
Come un tuffatore
O leone ammaestrato
Non mi brucio
Sento solo il calore
E un retrogusto appena
D’avventura

Si chiamava “la Poesia”
Una pozza tonda  di mare
Nel Salento
Mi sono immersa all’alba
Nel diamante
Dissetata di bellezza nuovamente
E lì ritorno
A rinfrescare le mie piaghe
Che  il sale risana
Poco a poco con sapienza

Fuoco e Acqua
Dentro di me
In pace finalmente
A fare sortilegi
Con un pizzico d’Amore
Pepe rosato d’Allegria
E Tenerezza
In filigrana preziosa
Che non mente










domenica 4 settembre 2016

PARLA PIANO...LA BAMBINA DORME (dalla raccolta "BAMBINE")




Erano uscite senza ombrello.
Il vento si era placato e dal cielo cominciava a scendere una pioggia fitta e fastidiosa.

La bambina indossava il cappotto nuovo di panno rosso e il cappellino di lana a rombi comprati pochi giorni prima ai Magazzini La Fayette a Nizza. La mamma si stringeva infreddolita alla gola il colletto di finta pelliccia del soprabito cammello, ormai sbiadito e frusto.

Arrivate al molo furono costrette dagli spruzzi a tornare indietro, sul viale di palme. La gente si affrettava a fare gli ultimi regali prima della chiusura dei negozi.


“Che facciamo stasera?”
“Resteremo in albergo, ho promesso alla Signora Lovati di darle una mano in cucina, sai, con tutti quegli ospiti…” La mamma aveva lo sguardo triste.

“Fa niente, resterò con papà a giocare a tombola”.

Nella hall trovarono il papà che, sprofondato in un divano di velluto verde,  leggeva un libro poliziesco. Indossava il completo principe di Galles, si era appena rasato e aveva un buon profumo di dopobarba. Il papà era sempre elegante e curato, sembrava un attore, e la bambina lo guardava con ammirazione e devozione sconfinate. Lui era il suo re.

Gli altri clienti erano quasi tutti nella sala a scambiarsi gli auguri, in un cicaleccio di convenevoli e saluti. La Signora Pontremoli portava un delizioso cappellino di velluto bordeaux con la veletta sollevata sugli occhi.

“ Com’è bella!- pensò la bambina- Da grande voglio essere come lei. Bella e ricca”.

 Il Signor Pontremoli era molto più anziano della moglie, piccolo di statura e con un grande naso aquilino che spiccava sulla sua faccia pallida e scavata. Ma era gentile e anche lui profumava, come il papà, di buon dopobarba. Faceva il commerciante di tappeti ed aveva accumulato, così si diceva, una fortuna di miliardi subito dopo la guerra.

I tavoli erano stati apparecchiati con particolare cura e la signora Lovati, aiutata da suo figlio Giuseppe, si affannava negli ultimi preparativi. In fondo alla sala da pranzo, vicino al pianoforte a coda, lucido e imponente, era stato sistemato un grande albero di Natale, addobbato con palline argentate e luci intermittenti. Sulla punta una cometa di brillantini luccicanti. La bambina ricordò il piccolo albero di Natale della casa sull’isola, finto e modesto, ma secondo lei il più bello del mondo, e per un attimo sentì un dolore strano, come una spina conficcata in un punto preciso della gola.
Era il secondo Natale che passavano lontani dall’isola. Non le avevano detto niente del trasloco in continente, semplicemente non erano più tornati a casa dopo le vacanze estive e lei non aveva più rivisto la sua scuola, le sue amiche, la sua maestra, i suoi giocattoli. Dopo un mese erano arrivate un paio di casse di legno con qualche libro, la biancheria, i piatti, ma il resto era stato venduto o regalato. Da allora non avevano più avuto una casa ed erano stati ospitati un po’ dai nonni al nord, un po’ dalla zia al mare, e la vita era diventata all’improvviso cupa e triste, proprio come la faccia della mamma. Nel frattempo aveva dovuto cambiare scuola due volte e di fronte alla possibilità di un terzo cambiamento aveva cominciato a piangere e disperarsi, non voleva più andarsene da lì, dal paese al mare del papà, dove ormai si era fatta delle amiche e aveva cominciato ad ambientarsi. Piuttosto sarebbe andata in collegio dalle suore, almeno avrebbe potuto continuare la scuola fino alla fine dell’anno, così aveva detto fra i singhiozzi. A malincuore, stupiti dalla sua rabbia e preoccupati dalle sue lacrime, la mamma e il papà avevano deciso di lasciarla lì in collegio ed erano partiti per il nord, dove il papà aveva trovato un nuovo lavoro, così le avevano raccontato.

Era arrivato Dicembre. Faceva molto freddo, in collegio non c’era riscaldamento e lei era poco vestita, ormai il cappotto le andava corto e stretto e le servivano un paio di scarpe invernali, di un numero più grande.

Erano venuti a prenderla  di notte, in macchina,  per le vacanze di Natale. Lei si era sdraiata sul sedile posteriore con un plaid sulle gambe e subito si era addormentata.

Avevano viaggiato per ore e ore, senza fermarsi mai.

All’alba erano arrivati a Genova. Avevano fatto colazione in un auto-grill sull’autostrada: cappuccino e cornetti caldi.

“Andiamo in Francia, ti va?” le aveva chiesto il papà con un sorriso dolcissimo. Aveva la faccia stanca e la barba lunga. La mamma era andata in bagno a darsi una sistemata e dopo aveva i capelli più in ordine e un rossetto rosa, che un po’ stonava con i suoi vestiti stropicciati.

Intanto era spuntato il sole.

Arrivarono a Nizza in tarda mattinata. Alloggiarono in un piccolo hotel nella città vecchia.

A cena in un ristorante tipico il papà le aveva regalato un mazzetto di viole, e lei col suo cappotto rosso di panno e il basco scozzese comprati nel pomeriggio, si era sentita una principessa.

Dopo due giorni erano tornati in Italia in un piccolo paese sulla Riviera dove il papà e la mamma avevano fatto amicizia con i proprietari di un albergo.

“Vedrai, ti piaceranno” le avevano detto.

E adesso erano lì a festeggiare il Natale.



“La mamma dov’è?”- chiese la bambina.

“E’ in cucina a dare una mano. Penso che ne avrà per tutta la serata. Rimarremo soli io e te, ti dispiace?”

Lei rispose impacciata :

“Un po’, ma non fa niente, non ti preoccupare.”

La cena era buonissima, c’erano anche le uova con la maionese uguali a quelle che faceva la mamma, e il vitel tonnè con i capperi.

Il Signor Pontremoli le sorrise dal tavolo vicino. Rassomigliava a un pellicano, ma le era simpatico e chissà perché le faceva un po’ di  tristezza. Al momento del brindisi la mamma venne al tavolo, tutta spettinata e con le guance rosse.

“Mi fermo solo un attimo, devo tornare a lavare i piatti. Era buona la cena? L’ho preparata io.” disse tutta di un fiato, pulendosi le mani sul grembiule a righe bianche e rosse.

Qualcuno stava strimpellando al piano una musica triste e alcune coppie avevano cominciato a ballare. Anche i Pontremoli. La Signora si era tolta il cappellino, aveva i capelli corti e ricci, e sembrava felice abbracciata al suo pellicano.

“Buon Natale -disse improvvisamente la mamma alla bambina, prendendo qualcosa dalla grande tasca sul grembiule-  tieni, è da parte di Babbo Natale. Stavolta è andata così, ma ti giuro che il prossimo anno, nella casa nuova, saremo di nuovo tutti insieme e ci saranno tantissimi regali.”

Era commossa mentre parlava, commossa e imbarazzata. Sembrava che stesse dicendo una bugia, così pensò la bambina: ogni volta che parlavano della casa nuova i suoi genitori sembravano attori che non hanno imparato bene la parte, goffi e impacciati, e poco convinti di quello che stanno dicendo.

Il pacchetto era rosso, con un fiocco dorato e dei piccoli fiori di carta velina incollati sopra. La bambina lo aprì, curiosa: era un libro di una scrittrice americana. Si intitolava “Un albero cresce a Brooklyn”.

“Vedrai, ti piacerà, è la storia di una bambina come te che, dopo molte peripezie, riesce a realizzare il suo sogno di diventare scrittrice.”

Che strano, appena un paio di anni prima, nella casa sull’isola, lei aspettava emozionata che Babbo Natale arrivasse furtivamente di notte a portarle i regali. Li trovava la mattina dopo sparsi  alla rinfusa ai piedi dell’albero, e veramente non c’era gioia più grande che scartarli uno a uno e allinearli per vedere quale fosse il più bello: la bambola africana o la vestaglia ricamata? I mobili da giardino in miniatura o il libro di avventure? Bei momenti. Anzi meravigliosi. Ma adesso era tutto finito. Lei era cresciuta e non credeva più a Babbo Natale.  E forse, proprio per questo, tutto era diventato grigio e triste.

Rientrarono in camera all’una passata, dopo il panettone, un ultimo brindisi chiassoso e due giri di tombola. I Pontremoli erano andati insieme ad altre due coppie alla messa di mezzanotte e ancora non erano tornati.

La bambina si mise il pigiama quasi a occhi chiusi, poi si accucciò sotto le coperte e prima di crollare in un sonno profondo sentì la mamma e il papà che sottovoce  facevano strani discorsi:

”Allora cara, domani torniamo al Casinò, stavolta andrà bene, vedrai, il sistema è sicuro, ci farà vincere un sacco di soldi, così potremo estinguere il debito con quelle sanguisughe dei Lovati e pagare l’albergo.”

“Speriamo, perché non ce la faccio più ad andare avanti così, sapessi come mi ha trattato quella strega in cucina, sembrava ci provasse gusto a vedermi sgobbare come una schiava. Basta, davvero, dobbiamo a tutti i costi riavere una casa e stare di nuovo insieme, noi tre…..

“Sss…..parla  piano… la bambina dorme…”

La bambina sospirò e borbottò qualcosa. Stava sognando che la Signora Pontremoli ballava abbracciata con il papà.

Lui era vestito tutto di rosso. Da Babbo Natale.

E dietro la barba riccioluta gli ridevano gli occhi.