lunedì 25 luglio 2016

UNA BELLA GIORNATA (dalla raccolta "BAMBINE")





La sua nuova amica si chiamava Maria Carla, detta Bambi.
Era molto alta e aveva un accenno di seno, con due capezzoli appuntiti come matite appena temperate. Era un po’strana. Lei non avrebbe saputo dire bene perché. Strana.

Una domenica Bambi l’aveva invitata a pranzo a casa sua.

I suoi erano gentili.

La madre, dopo averla abbracciata, le aveva detto:

“Non chiamarmi signora, mi fai sentire vecchia! Chiamami Nives!”

Appena finito di mangiare, Bambi si era seduta in braccio a suo  padre e aveva preso a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Poi avevano incominciato a ridere parlottando fra loro. Anche la Signora Nives rideva, sembrava contenta.

Lei si era sentita a disagio, fuori posto. Padre, madre e figlia ridevano, ridevano. Sembrava una commedia o uno di quei film dove ridono tutti, ma tu non hai capito la battuta

Guardando Bambi e il padre abbracciati, aveva pensato che lei di suo padre aveva soggezione. Lui non c’era mai e quando era a casa, il sabato e la domenica, se ne stava tutto il tempo a guardare le partite o le corse di moto. Parole poche, strascicate. E sempre le stesse:

“Come va la scuola?”

“Va’ ad aiutare tua madre”

“Comprami un pacchetto di sigarette”.

Basta. Figuriamoci poi sedersi sulle sue ginocchia.

Invece fra quei due c’era una strana complicità. Che lei un po’ invidiava. Come pure invidiava il caos colorato della loro casa, con quei cuscini di velluto sui divani e piante dappertutto. Una casa allegra. Luminosa.

L’invidia la sentiva nella gola, in un nodo fastidioso e amaro, che quasi la strozzava.

Quel pomeriggio, dopo merenda, Bambi aveva tirato fuori dall’armadio un bauletto rosa, merlettato, pieno di matite colorate, rossetti, fard e polveri luminescenti con le stelline. Le voleva insegnare a truccarsi

“Non è un po’ presto a 11 anni?” lei le aveva detto timidamente, mentre cercava di togliersi una macchia di rimmel dalla palpebra.

Ma Bambi, con un rossetto rosa perlato che mandava guizzi luminosi, le aveva risposto:

“Bisogna impararla presto l’arte della bellezza. Guarda mia madre: si è sposata a 18 anni, a 19 sono nata io, e vedi quant’è  bella, sembra una ragazzina. Non hai mai dimenticato un giorno di truccarsi, il rimmel e la matita intorno agli occhi anche quando va a fare la spesa. E invece, scusa, ma tua madre, sembra quasi una vecchia, con quei capelli lisci scoloriti e le zampe di gallina… quanti anni ha? Trentacinque?...pare che ne abbia almeno cinquanta!”

 “Guarda che ti sbagli… mia madre è bella, certo ha un po’ la faccia stanca e sfiorita con tutto quel correre, il negozio, la casa, mio padre, sempre più esigente, ogni giorno camicie bianche da stirare…” Avrebbe voluto risponderle così. Ma era riuscita solo a dirle, a bassa voce: 
“Trentadue. Appena compiuti”.

Sua madre le faceva pena, sempre così affannata, sempre così incupita e stanca. A volte le saliva forte il desiderio di scuoterla per le spalle e gridarle:

“Fermati un attimo, guardami, ascoltami!”

Invece se ne stava zitta, e per calmare il senso di colpa e di impotenza, cercava di rendersi utile. Ogni mattina si rifaceva il letto, a volte puliva il bagno, altre volte dava una mano a stendere il bucato.

Piccole faccende. Non le pesavano. Avrebbe fatto i lavori forzati pur di vedere sua madre sorridere come la Signora Nives, che rideva sempre, scuotendo i capelli riccioluti freschi di parrucchiere e aveva addosso un profumo alla rosa, forse un po’ troppo forte,  ma buono.

Invece sua madre non amava i profumi, diceva di essere allergica. Ma come si fa ad essere allergiche a qualcosa di buono?

Le sapeva tanto di scusa. Semplicemente non aveva i soldi per comprarselo il profumo, o forse le sembrava una cosa frivola, uno spreco, chissà.
A Pasquetta erano andati tutti a fare una scampagnata: Bambi e i suoi genitori, lei e i suoi, e anche suo cugino Oscar. Suo padre aveva un debole per Oscar. Insieme giocavano a pallone o a racchettoni sulla spiaggia, oppure facevano la lotta. Lei se ne rimaneva impalata e timida a guardarli, avrebbe voluto partecipare a quei giochi da maschio, ma non ce la faceva, si sentiva le gambe rigide, bloccate e le spalle contratte. Suo padre rideva, Oscar riusciva quasi sempre a batterlo, ma lui non se la prendeva, anzi, sembrava orgoglioso.
Era il figlio maschio che aveva sempre desiderato... 
Appena arrivati nella sughereta, sua madre e la Signora Nives avevano disteso sul prato una grande tovaglia a quadri, con sopra ogni ben di Dio: frittatine, uova sode, pollo arrosto, patate al forno, tiramisù e colomba. Quattro fiaschi di vino, appoggiati in cerchio intorno a una quercia, sembravano sentinelle impalate a fare la guardia. Gli uomini si erano messi a giocare a carte, Oscar tirava calci a un pallone un po’ sgonfio, Bambi appoggiata ad un albero sfogliava una rivista femminile. Lei si era messa a sgusciare le uova.
“Appena ho fatto arriviamo fino al fiume?” aveva detto a Bambi.

Ma Bambi  aveva risposto alzando le spalle:

“Adesso non mi va, chissà, forse dopo.”

Poi lei si era distratta a mettere la legna sul fuoco per fare la brace.

Quando si era girata Bambi non c’era più. E nemmeno Oscar.
“Li vado a cercare”- aveva pensato- così magari andiamo insieme al fiume”.

Aveva camminato per una buona mezz’ora, fino quasi a perdersi. Al fiume non c’era nessuno. Era risalita su per la collina, inerpicandosi a quattro zampe nei punti più ripidi. Era eccitata, le sembrava un’avventura, un giocare a nascondino più serio, da grandi. Finché aveva sentito delle risate provenire da dietro un cespuglio. “Eccovi, finalmente!” aveva detto a voce alta con sollievo, tutta rossa e accaldata.

Bambi era sdraiata per terra e sopra di lei ansimava Oscar. Erano goffi.
Erano ridicoli.

Era scappata via correndo e inciampando sul terreno scosceso.

“Dove ti eri cacciata? E quegli altri due dove sono? Aiutami a girare le salsicce sulla brace” le aveva detto sua madre.

“Stanno giocando a pallone, fra poco arrivano…”. Il cuore le scoppiava in gola.

Non aveva fatto in tempo a finire la bugia che Bambi era comparsa dal folto degli alberi, sorridente, appena un po’ spettinata, con dietro Oscar, dinoccolato, a testa bassa. Suo padre doveva aver intuito qualcosa perché c’era nel suo sguardo un guizzo di orgoglio che sembrava dire: “E bravo mio nipote!”

 “Grazie- le aveva sussurrato all’orecchio Bambi - domani ti regalo il mio ombretto. Quello azzurro, con le pagliuzze argentate”.

“Io non mi trucco. E poi il blu non mi piace. - si era asciugata una lacrima con il dorso della mano sporco di fuliggine - Uffa, questo fuoco mi fa bruciare gli occhi.”

Bambi le aveva tolto il forchettone dalle mani.

“Spostati che ti aiuto. Se vuoi dopo andiamo al fiume. Sole io te. Va bene?”


Lei aveva tirato su col naso:

“Va bene. Ma promettimi che Oscar non viene.”

“E’ solo un bambino scemo. A me piacciono quelli più grandi. E poi mi diverto di più a giocare con te.”

Lei aveva sospirato. Un sospiro lungo, di consolazione.

Oscar stava facendo la lotta con suo padre.

Il padre di Bambi stava stappando un fiasco di vino.

Le due mamme se ne stavano sedute su un tronco a fumarsi una sigaretta.

Bambi le stava sorridendo.  

Era proprio una bella giornata.

E lei in quel momento si sentiva incredibilmente felice.









martedì 19 luglio 2016

NEL CIELO NEPPURE UNA NUVOLA (ricordando Pomaia)







Succedeva di notte. Il richiamo era ogni volta più forte.
Si alzò dal letto e scivolò silenziosa fuori dalla stanza dove dormivano le sue compagne Il buio era appena rischiarato dal riverbero della luna. Pace perfetta. Nella corte scricchiolio di ghiaia e dopo pochi metri  il sentiero, morbido, di terra battuta. Ai lati bordature profumate di lavanda. Anche se era quasi la fine d’agosto era ancora fiorita e al massimo della sua fragranza. Lei camminava lentamente, assaporando il tocco del piede sul terreno, sentendo le piccole asperità di pietra che formavano scalini appena scoscesi, passo dopo passo, elegante, austera nella sua semplicità. Poteva godersi la gioia di quel camminare senza fretta, senza affanno. Camminare semplicemente per camminare. Ed essere presente con il corpo e con la mente, non proiettata nel futuro o rivolta al passato, ma lì in quel giardino, in quella notte di fine estate, in quel monastero dove aveva scelto di trascorrere alcuni giorni per prendersi cura di sé.  La camicia da notte leggera e bianca le creava intorno al corpo una nuvola di purezza e di candore, che dava al suo passaggio una parvenza quasi di irrealtà. Creatura notturna, angelica, misteriosa. E, passo dopo passo, arrivò al campo degli ulivi. Ulivi giovani ed esili, appena contorti, con le braccia dei rami protese verso un cielo blu cobalto punzecchiato di infinite stelle. Il bello della notte e dell’oscurità perfetta, che ti fa affinare i sensi, ti fa vedere al buio occhi luminescenti di gatto, guizzi improvvisi, saltelli sui cespugli. E sentire gli odori, rinfrescati e acuiti dall’umidità della rugiada. Era possibile distinguerli, uno a uno, in una specie di inventario profumato e magico, lasciandosi poi sopraffare dall’alchimia che li univa tutti insieme in una fragranza unica, per scomporli di nuovo, come in un gioco. Su tutti prevaleva il profumo della lavanda, appena un po’ amaro all'inizio e  via via sempre più dolce e frizzante nel naso. E poi l’odore di terra, più asciutta nel pendio e più grassa lungo il sentiero. E di erba fresca e umida, verde anche nel respiro, inebriante. E di quella secca, quasi di fieno, su verso la collina. Il profumo del mirto, appena aspro, e quello del lentisco, suggerivano la vicinanza del mare, a pochi chilometri. Soffermandosi ad annusare il vento tiepido si poteva avvertire il sale e quasi sentirlo sulle labbra. Le rose, quelle gialle, erano quasi sfatte, ma i petali caduti ne conservavano l’essenza profumata di vaniglia.
Le rose in città non profumano più e sembrano finte, questo lei pensò, assaporando con ancora più pienezza quella meraviglia. I grilli si alternavano nel canto a qualche cicala ritardataria. E poi fruscii, richiami di uccelli notturni, battiti d’ali, un gracidare lontano, giù dallo stagno. Rifece il cammino inverso, sfiorando con le dita le inflorescenze di lavanda. A tratti i rumori si fermavano all’improvviso e le sembrava di entrare in una bolla di silenzio. Era allora che i profumi diventavano ancora più intensi e gli altri sensi si acuivano, come a voler bilanciare quell’assenza di suoni, con una vista più acuta, che quasi vedeva oltre la notte, un odorato più sveglio, a caccia di tracce profumate, un tatto pronto a cogliere la morbidezza, la rugosità, la freschezza, l’umido, il secco di quella natura. La notte si era fatta ancora più scura e l’aria più fresca. Si avvicinava l’alba. Si fermò per qualche istante ad abbracciare il grande pino marittimo, il viso appoggiato alla corteccia ruvida e profumata di resina, le braccia intorno al tronco, solido ed elegante nello stesso tempo. E, prima di rientrare nel dormitorio, rivolse un ultimo sguardo al giardino, per poterlo portare con sé nel sonno e farlo germogliare come seme fertile e buono. Quella pausa rigenerante avrebbe reso il suo riposo ancora più profondo. Sotto il cuscino avrebbe messo un mazzetto di lavanda. L’indomani sarebbe stata una bellissima giornata.  
Nel cielo neppure una nuvola.


martedì 12 luglio 2016

RICORDANDO LA PIOGGIA




Sembrava una parola d’ordine. Semplice e misteriosa nello stesso tempo. Gliel’aveva sussurrata al telefono la voce di un uomo che lei non conosceva, gentile e pacata, da un posto dal nome magico che evocava fiumi di emozioni: Cascina Macondo.
ACQUAZZONE. Intorno a quella parola lei avrebbe dovuto scrivere un racconto. Era un’esercitazione, una specie di gioco serio, fatto insieme a persone sconosciute, adulte come lei rimaste un po’ bambine, e questa cosa la intrigava e incuriosiva.
Il sabato era quasi finito. Aveva promesso di andare a casa di un’amica a guardare un film in cassetta. Era un film dolce, che parlava di padri e figli che si ritrovano alla fine della vita, in Louisiana, con attori splendidi e una musica di sottofondo che strappava l’anima. Per alcune ore non aveva pensato al racconto. Aveva tutta la domenica a disposizione, fino alle quattro del pomeriggio. C’era tempo. Andò a dormire molto tardi. Sognò di essere a Cagliari e di cercare la casa della sua infanzia. Ma non riusciva a trovarla. Tutto era diverso, c’erano piazze nuove, grandi, che lei non conosceva, girava a vuoto, si era persa, prese un taxi che la portò ancora più fuori strada.
Si svegliò alle dieci, con un leggero mal di testa. Il gatto miagolava di continuo, fastidioso. Era anziano, stava perdendo i colpi. Si mise al computer. Anche il computer era fastidioso, le mangiava intere parole e lei doveva ricominciare da capo ogni volta. Sua figlia dormiva, era rientrata quasi all’alba.
C’era il sole.
Cercò di concentrarsi. Non le veniva in mente niente. Forse se ci fosse stata la pioggia sarebbe stato diverso.
ACQUAZZONE. Chissà perché le veniva in mente solo la primavera e quella pioggia fina fina che scende a marzo… “la pioggerellina di marzo che picchia argentina sui tetti…”. E anche la scuola, le prime violette in giardino, il viso dolce della maestra, il profumo della sua compagna di banco, di borotalco e caramelle. Ma nessun acquazzone.
Il gatto si era messo a dormire sulla sua coperta. La casa era in un silenzio totale. La vista del mare dalla finestra e della torre e dei tetti, la rassicurava. Tutto era al suo posto in quella domenica di fine inverno.
All’improvviso ricordò le vacanze in montagna con i nonni.
Partivano da Torino all’alba, veniva un signore vestito da autista, con il berretto. E una grossa macchina nera, tutta lucida. Si chiamava il Signor Formica. Quando cominciavano le curve, su in valle di Lanzo, lei cominciava a vomitare, ma la nonna si era attrezzata bene con sacchetti di carta e strofinacci vecchi. Il Signor Formica al di là del vetro, non si accorgeva di niente.
Quando arrivavano a Mezzenile le girava un po’ la testa, era la stanchezza, erano in piedi dalle cinque, e anche l’euforia. Subito correva all’altalena e cominciava a dondolarsi su su in alto, fino a toccare con la punta dei piedi i rami della grossa quercia. Ed era felice.
Restavano lì tutto il mese di agosto. Era un albergo a conduzione familiare, i proprietari erano il Signor Bracco e sua moglie, la Signora Vera. Era pieno di nonne con i nipotini che andavano lì ogni anno. Sembrava una grande famiglia.
I nonni giocavano a bocce. Le nonne se ne stavano a spettegolare al fresco vicino alle ortensie, qualcuna ricamava o lavorava all’uncinetto. Sua nonna fumava.
I bambini correvano tutto il giorno. Lei aveva imparato a giocare a ping pong, le piaceva il rumore della pallina sul grande tavolo verde con la retina, stava ore e ore a giocare con i maschi più grandi. E poi per riposarsi andava sull’altalena fino a farsi venire le vertigini. Prima di pranzo, a mezzogiorno e trenta spaccate, c’era una strana cerimonia: tutti scendevano in fila indiana sulla mulattiera fino alla fonte a prendere l’acqua ghiacciata e pura che scendeva dalle montagne più alte. Poi c’era il pranzo. E dopo il sonnellino. Per lei era una tortura, non aveva sonno, ma la nonna era implacabile, bisognava dormire a tutti i costi, allora lei se ne stava immobile con gli occhi chiusi a pensare e a volte a furia di pensare si assopiva un po’ per svegliarsi al rumore della pallina da ping pong che indicava che la siesta era finita.
Verso la fine di agosto, quando mancavano ormai pochi giorni alla partenza, il tempo cominciava a cambiare. La sera faceva più fresco, il golfino non bastava più, ci voleva anche uno scialle e spesso dopo cena bisognava starsene chiusi nella saletta della televisione, mentre i grandi se ne stavano a chiacchierare nella sala da pranzo. Ma anche lì era un divertimento. I bambini spostavano tavolini e sedie di giunco e con le tovaglie a quadretti prese nei grandi armadi della signora Vera, costruivano strani accampamenti e giocavano agli indiani. Lei faceva sempre la squaw che accudiva i piccoli o preparava da mangiare, con foglioline e bacche rosse che si trasformavano in insalata e pomodori, come per magia. E proprio in quelle sere che già sapevano di fine dell’estate, arrivavano improvvisi gli acquazzoni. I tuoni rotolavano giù nella valle diventando sempre più potenti e i lampi proiettavano una luce abbagliante sul giardino deserto e sulle sedie di ferro bianche sotto il pergolato. La voce del torrente Stura sembrava più impetuosa e quando la pioggia cominciava a scendere a scrosci, da fuori salivano bisbigli e schioppettii di rami spezzati e di fronde che grondavano, insieme al gocciolare della grondaia in pozzanghere argentine, al rotolare di ghiaia e sassolini giù per il pendio e al tonfo ritmico dell’altalena sbattuta dai vortici di vento sul tronco della quercia. I bambini se ne stavano in silenzio nel loro accampamento e in quei momenti tutto era possibile : loro erano veri indiani delle praterie che stavano aspettando la fine della grande pioggia per la quale tanto avevano pregato il Grande Spirito e fatto danze in cerchio.
Le campane stavano suonando, era mezzogiorno. Si alzò dalla scrivania per andare da sua figlia che si era svegliata. Il gatto miagolava di nuovo. Doveva preparare il pranzo. Niente di complicato: orecchiette con i broccoli, già lessati, e uno sformato con speck e mozzarella. Ci avrebbe messo una mezz’oretta in tutto. E dopo pranzo avrebbe ripreso a scrivere. Le erano venuti in mente gli acquazzoni dell’America Latina, quelli del viaggio. Dopo mangiato li avrebbe raccontati. Adesso doveva smettere di scrivere, c’erano anche i piatti del giorno prima da lavare, e poi si doveva ancora vestire. Di tempo in fondo fino alle quattro non ce n’era molto. Doveva sbrigarsi. Le stava venendo un po’ di ansia.
Dopo pranzo si rimise al lavoro. Aveva perso la concentrazione. Cercò di ricordare le piogge dell’America Centrale. Era passato tanto tempo e successe tante cose. E chissà se le avrebbe fatto bene ricordare.
Inizio del viaggio. Ricordi meteo.
A Città del Messico avevano trovato il sole e l’aria limpida, nonostante lo smog. 
A Vera Cruz un’afa insopportabile che non li faceva dormire.
A Oaxaca venticello gentile, nuvole bianche in cieli smaltati di blu, ma niente pioggia.
Sulla costa del Pacifico, a Puerto Angel e Zipolite, tramonti mozzafiato e cieli sereni.
A San Cristobal  finalmente la pioggia.
Erano arrivati di sera con una corriera sgangherata. Erano stanchi, sporchi e affamati. Gli hotel erano tutti al completo. Gli zaini pesavano sulle spalle. Il suo era rosso, con le cinghie nere. All’improvviso aveva cominciato a piovere. Ma non era una pioggia normale, le gocce erano enormi e formavano rivoli fastidiosi che si insinuavano dappertutto, nelle scarpe, nei vestiti, sulla faccia e sui capelli. In pochi minuti erano diventati completamente fradici. Non c’era nessun posto dove ripararsi. Finalmente in una viuzza stretta trovarono l’insegna di un hotel. La camera era piccola, dalle pareti gialle. Si spogliarono completamente ma si accorsero che tutti i vestiti che avevano negli zaini erano completamente zuppi. Li strizzarono e li misero ad asciugare sulle sedie e sull’attaccapanni. Per coprirsi si arrotolarono nelle lenzuola pulite di bucato.
Il mattino dopo c’era un sole splendido e i vestiti si erano asciugati.
Dopo pochi giorni erano passati in Guatemala. Colori ancora più brillanti, paesaggi minuti di colline e case bianche, donne sorridenti con casacche ricamate e bambini paffuti addormentati sulle spalle. Si erano fermati in un paesino chiamato Flores, sulle rive di un lago. Le piogge recenti avevano fatto innalzare il livello dell’acqua fino a sommergere le fondamenta dell’hotel che così sembrava emergere dal lago. L’edificio era di legno azzurro, loro erano gli unici clienti, insieme a un giovane antiquario uruguaiano che viveva a Parigi.
La pioggia arrivava di mattina in banchi fitti che sembravano di nebbia.
Era uno spettacolo. Il lago diventava giallo come lo zolfo e piccoli mulinelli di pioggia increspavano la superficie. Senza tuoni, senza fulmini, si sentiva solo lo scroscio della pioggia, come una cascata impetuosa. Poi all’improvviso finiva tutto e si riaffacciava il sole. E la luce era di nuovo chiara, limpida, perfetta.
In Costa Rica, a San Josè, due o tre volte al giorno arrivavano all’improvviso gli acquazzoni.
Duravano pochi minuti e facevano baccano.
La gente, già sorridente di natura, cominciava a ridere e scappare alla ricerca di un riparo ed era un chiacchiericcio allegro mischiato allo scrosciare della pioggia che rendeva le giornate briose e movimentate.
Quando invece si trovavano in casa e cominciava a piovere, Doña Carmen, l’amica che li ospitava, prendeva la gabbia con Lorita, la pappagalla, e la metteva all’aperto nel cortile. E succedeva un miracolo: Lorita cominciava a gorgheggiare e a cantare una melodia intonatissima, tutta sua, felice di essere al mondo, con l’acqua che le grondava sulle piume e la faceva sembrare spennacchiata, e gli occhietti  tondi che sprizzavano gioia.
Se lei si concentrava un po’, poteva ricordarsela quella musica bellissima, perché di musica si trattava.
Un pezzo unico, originale, mai più sentito.
Il tempo stava per scadere. Le erano venute in mente altre piogge e altre atmosfere, ma non poteva ricordarle tutte. 
I cieli di Parigi dopo un temporale, le trombe marine dalla sua finestra sul mare d’inverno, la pioggia di primavera in Sardegna sotto la tenda che reggeva appena, la tempesta su quella barca che li portava a Livingstone, l’alluvione di Firenze visto alla televisione, la paura e lo smarrimento e, anni dopo, quando faceva l’università, il segno sul muro della sua casa a due metri di altezza con la targa: “il 4 Novembre 1966 l’acqua dell’Arno è arrivata qui.”
Ma non c’era più tempo.
Il gatto aveva ripreso a miagolare. Forse aveva fame.
Cascina Macondo. Chissà, forse un giorno ci sarebbe andata. Le piaceva comunque sapere che il suo racconto sarebbe stato letto da qualcuno, con rispetto e attenzione, intorno al fuoco.
Con i bambini che giocavano.
E i cani e i gatti.
E forse nell’aia le galline.
Come una famiglia. La famiglia di chi ama la scrittura e la vuole condividere con gli altri, non tenersela stretta stretta per sé. Era bello questo pensiero. Le dava allegria.
Sì, la prossima volta ci sarebbe andata. E sarebbe stata primavera.
 
In canoa

su un lago tranquillo

che con le piogge

torrenziali

ha allagato l’albergo

ci affacciamo sull’acqua

tu ti tuffi

l’aria è gialla di zolfo

il vicino di stanza

è uruguaiano

fa il mercante d’arte

a Parigi

non ricordo il suo nome

so solo che è triste

e ha la faccia con i segni dell’acne

l’ultimo giorno

prima di salire sull’autobus

gli ho prestato una penna

per scrivere delle cartoline

con la sua calligrafia appuntita

ho perso il suo indirizzo

ora ricordo

si chiamava Christophe

la penna non me l’ha più restituita.






giovedì 7 luglio 2016

LA LUNGA NOTTE DI SALINA CRUZ





Quando un amico mi ha parlato di Salina Cruz, non ho potuto fare a meno di ricordare. Che strano, dopo più di trent’anni basta girare un interruttore e il ricordo appare, nitido e colorato, come se nel frattempo non fosse successo niente e non fosse passata una vita. A quel posto non ci avevo più pensato. Troppo brutto. Troppo caldo. Troppo lontano dalla bellezza che avevamo attraversato e che ci avrebbe accompagnato per il resto di quel viaggio.



Siamo arrivati a Oaxaca nel Maggio dell’81,
dopo alcuni giorni trascorsi a Città del Messico e un paio di notti a Vera  Cruz, città insopportabilmente afosa. Il viaggio era appena cominciato. Sarebbe durato 18 mesi. Oaxaca ci piacque subito. Prima di tutto era fresca e poi tranquilla, dopo la bolgia di Mexico City. L’albergo era carino, si chiamava Hotel Principal. Era coloniale, con il patio interno e le stanze dai mobili scuri. La notte eserciti di cucarachas sbucavano dagli interstizi, veloci come la luce. Dopo un raccapriccio iniziale, in poco tempo mi ci abituai. Facevo finta di non vederle e, unica precauzione, scuotevo le scarpe prima di mettermele. Dionisio abitava nella stanza accanto alla nostra. Era un indio zapoteco, basso e dai lineamenti marcati, grande bocca e  naso da pugile. Brutto, molto brutto. Ma quando parlava restavi incantato. Lui era di Salina Cruz, ma viveva lì da un po’ di tempo, stava scrivendo un libro di poesie. Dionisio era un poeta. Lui e Alberto fecero subito amicizia. Parlavano e bevevano birra nel patio, mentre io riposavo dopo i lunghi giri per la città. Ancora non capivo completamente il castigliano, stavo imparando, e quel parlare fitto fra uomini mi faceva sentire un po’ esclusa. Ma anch’io mi ero fatta un’amica, Olivia, una ragazza fiorentina di 18 anni, scura e piccola come una india, con le treccine  attorcigliate intorno alla testa. Viveva nella stanza più grande dell’albergo, con suo padre pittore, che stava dipingendo dei murales in una chiesetta del luogo. Una sera andammo a cena tutti insieme in un locale caratteristico che si chiamava “El sol y la luna”. C’era anche Arlette, un‘antiquaria francese che viveva a N.York. Era venuta lì a comprare da un’artigiana del luogo, che si chiamava Teodora, delle preziose ceramiche nere, fatte con un sistema di cottura che risaliva agli atzechi, che avrebbe pagato pochi soldi per poi venderle nel suo lussuoso negozio di Manhattan a un prezzo salatissimo. Arlette era una donna sui quaranta, molto femminile, capelli a caschetto, sguardo vivo e un corpo minuto che muoveva con eleganza. Dionisio non le toglieva gli occhi di dosso. La notte sentimmo lui e Arlette fare l’amore nella stanza accanto fino all’alba.
Una sera Dionisio, mezzo brillo, ci declamò in piedi su uno dei  tavoli de “El Sol y la luna”, una poesia sulla sua bambina che viveva a S. Francisco. Fu in quel momento, guardando quel piccolo poeta zapoteco sciogliersi in lacrime mentre ci raccontava lo struggimento della lontananza, che sentii forte dentro di me il desiderio di iniziare a scrivere  poesie. La calma di quei primi giorni a Oaxaca, fu in qualche modo interrotta da un avvenimento spiacevole. Un pomeriggio, mentre vendevamo la nostra mercanzia (orecchini, foulards, cravatte di seta) fummo fermati da due poliziotti che ci fecero passare l’intera notte nell’ufficio di polizia locale, fra spacciatori e prostitute bambine, dando ogni tanto una toccatina alla pistola che tenevano a guisa di cow boys in un fodero attaccato alla cintura. Ci sequestrarono la merce e ci estorsero gli unici dollari che avevamo, circa una sessantina. Per fortuna in albergo ci erano rimaste una ventina di cravatte. Dionisio la mattina dopo ci accompagnò in Tribunale, un grosso edificio rosa brulicante di gente e, dopo un’oretta, le aveva già vendute tutte, a 10 dollari l’una, ai suoi amici impiegati, archivisti o giudici. Lui tenne per sé una cravatta rossa, con un piccolo giglio di Firenze ricamato sopra. Quella cravatta rese l’amicizia fra lui e Alberto quasi indissolubile. Una sera, dopo la 5a birra, con gli occhi lucidi, quasi abbracciato ad Alberto (se non avessi sentito con le mie orecchie le sue prodezze da amante avrei pensato che era innamorato di lui!) ci disse: “Quando andate via da qui fermatevi a Salina Cruz, vi do le chiavi della mia stanza. Mi casa es tu casa, hermano!” e via con la 6° birra! Guardammo sulla nostra “Guide du Routard”, Salina Cruz era citata solo come una cittadina di passaggio. Nessuna rovina, nessuna attrattiva, niente. Arrivammo di sera tardi. Non sapevano del nostro arrivo, “el poeta” non li aveva avvertiti. Ci accompagnarono alla stanza, ubicata in una piccola dependance affacciata sul patio, guardandoci in cagnesco mentre aprivamo la porta con la chiave di Dionisio. La stanza era in completo abbandono: un letto matrimoniale sfatto chissà da quanto tempo, lattine di birra vuote, piante secche, posacenere colmi di cicche, biancheria sporca. Ormai era notte, la prima corriera ci sarebbe stata solo la mattina dopo, dovevamo fermarci lì. Il bagno era nel patio. C’era solo il wc e una grande vasca-serbatoio colma d’acqua, per versarcela addosso i soliti gusci di noce di cocco. Non osai lavarmi i capelli e poi avevo finito lo shampoo. Uscimmo a cercare qualcosa da mangiare. Trovammo solo un Mc Donald e ordinammo due enormi cheese burger e una birra. La città era deserta, tutti i negozi chiusi, solo il neon di qualche vetrina di abbigliamento, con abiti alla moda (!) su manichini con la parrucca bionda. Un’unica cafeteria, piena di uomini. Vecchie Cadillac piuttosto malandate parcheggiate lungo le strade. In lontananza, le ombre di piccole colline secche. Dove eravamo capitati?. E perché Dionisio, che aveva nel cuore la bellezza, ci aveva spinto a venire in un posto tanto brutto? La notte non chiudemmo occhio. Un’afa umida e appiccicosa avvolgeva la stanza, nonostante le finestre spalancate dalle quali, attraverso le zanzariere strappate, entravano a frotte le zanzare. Ci ronzavano a famiglie sulla faccia. Alberto si era messo un foulard di seta sul viso, io il lenzuolo, ma le puttane ci entravano nelle orecchie, fra i capelli, ci pungevano attraverso la seta e la tela ruvida del lenzuolo. Un incubo. Non c’era neppure un goccio d’acqua da bere, solo una mezza lattina di coca cola tiepida, che razionammo a sorsi infinitesimali, fino all’alba. Non avevamo scampo. Bisognava aspettare il giorno e scappare via da lì, da quella brutta stanza di quella brutta città che si chiamava Salina Cruz e non aveva motivo di esistere. Il resto del viaggio, dopo una nottata così, fu una meraviglia. Dionisio non l’abbiamo più rivisto. Ho cercato il suo nome su internet. E’ diventato un poeta famoso. Chissà se quella poesia triste sulla sua bambina è stata mai pubblicata. Io spero di sì, perché era bellissima.







La notte più calda
a Salina Cruz
a casa del fratello del Poeta
andate pure
ci aveva detto Dionisio
mi casa es tu casa
grato per la cravatta
che gli avevamo regalato
ma non era vero
ci hanno dato una stanza
in disordine
libri dappertutto
e riviste impolverate
il letto era sfatto
le zanzare scendevano in picchiata
cercavamo di ripararci la faccia
ma ci pungevano le orecchie
la notte più lunga
senza refrigerio
senza acqua
al mattino un saluto svelto
e via verso lo Yucatan
quando il sole era già
alto
su un autobus di lusso
con l’aria condizionata
abbiamo dormito fino
all’arrivo
altri colori
ancora più brillanti
di mais umido di pioggia
e chiese azzurre e viola
da aggiungere
alla tavolozza
era l’inizio
di una nuova storia.



  Nel frattempo
persone tante
uomini e donne
coppie e amanti
bambini e forse cani
raramente gatti
hanno dormito in quelle stanze
nulla è rimasto fermo
neanche una cesura
un’assenza di respiro
un errore di secondi
dimenticati dal tempo
niente di tutto questo
l’Hotel Principal
ha continuato a vivere
senza di noi
le nostre valige
trasportate altrove
in altri viaggi
le nostre vite a zonzo
ombre liquefatte
ormai separate da due mari.









lunedì 4 luglio 2016

LA TERZA MOGLIE




Mio nonno ha avuto tre mogli. Anche se la terza non l’ha mai sposata.
La prima è morta a 55 anni sotto i bombardamenti, 4 giorni prima dell’armistizio. I caccia americani sono arrivati dal mare, distruggendo in pochi minuti buona parte della città vecchia e uccidendo circa 200 persone, soprattutto donne e bambini. Lei si chiamava Elvira e faceva la sarta.

Mi hanno dato il suo nome.

La seconda moglie si chiamava Cristina e abitava a Taranto, dove lui era capitato dopo lo sfollamento. Era un po’ strana, taciturna e piena di tic. Lui l’aveva conosciuta tramite un sensale. “Mi raccomando, che sia vergine” gli aveva chiesto. E Cristina rispondeva alla richiesta. Solo che era piuttosto attempatella, appena sotto i cinquanta, lunga e secca, con spesse lenti da miope. Mio nonno con lei era protettivo e tenero. Ma dopo pochi anni le fissazioni erano aumentate, le era venuta la fobia del cibo, aveva paura che dentro ci fosse del veleno. E aveva preso a non lavarsi più. Se ne stava rannicchiata in un angolo, sudicia e spettinata, dondolandosi con una nenia da bambina. L’hanno ricoverata una mattina a S.Maria della Pietà, lì a Roma, dove erano andati ad abitare dopo la fine della guerra. E poi sono venute le sorelle per riportarla a Taranto.

Mio nonno è rimasto solo. I suoi cinque figli erano sparpagliati un po’ dappertutto: la più vecchia si era trasferita in Venezuela, uno abitava a Roma, uno, quello che si era fatto una posizione, a Torino, mio padre, il maschio più piccolo, cambiava lavoro e città di continuo, l’ultima, la femmina, era rimasta a vivere a Terracina.

Intanto gli anni passavano.


Non so come abbia incontrato Tania. Era un’anziana signora, molto distinta, che discendeva da una famiglia altolocata, si diceva che fossero Conti. Un palazzotto nel centro storico della nostra piccola città porta il suo cognome. Fra mio nonno e Tania è nato un amore. Hanno preso casa a Roma, a Centocelle, in Via dei Castani. Io credo che per lui quelli siano stati gli anni più belli. Lei lo accudiva come un principe. La casa era accogliente e luminosa e Tania si dilettava a preparare ogni giorno manicaretti diversi. “Cicci, cosa vuoi che ti prepari oggi?” gli diceva con un sorriso prima di uscire a fare la spesa. Lei aveva un solo figlio che si chiamava Raoul e che aveva preso ad amare mio nonno come un padre. Il mio zio di Roma però non approvava. Era disdicevole una cosa del genere, a quell’età una relazione, ma che diamine, ci vuole un po’ di ritegno! Mio nonno soffriva molto per questa cosa. Lui Tania avrebbe voluto sposarla (Cristina nel frattempo era morta), in modo da lasciarle la pensione il giorno che se ne fosse andato, perché era nell’ordine delle cose che lui se ne andasse prima di lei, visto che aveva quasi 10 anni di più. Ma il rifiuto di quel figlio lo tratteneva. E d’altra parte Tania era discreta e non insisteva più di tanto:

“Non ti preoccupare Cicci, l’importante è che noi continuiamo a volerci bene”.

E intanto continuava a preparagli crostate e torte di mele.

Poi lei si è ammalata. Niente di grave, doveva fare un piccolo intervento all’utero. Prima di andare all’ospedale ha lasciato il freezer pieno di polpette, arrosti, sughi, verdure lessate, tutti in contenitori monodose avvolti nella carta stagnola, che sembravano gioielli luccicanti.

La convalescenza è stata più lunga del solito. Tania è dovuta andare a casa del figlio e della nuora  per essere accudita. Mio nonno è tornato a vivere qui a Terracina, nel quartiere “Capanne”, in una piccola casa vicino a quella di mia zia che ogni giorno gli portava  il pranzo e la cena in piatti fumanti. Una donna gli faceva le pulizie un paio di volte a settimana.

Ma mio nonno era triste. Gli mancava Tania.

Al telefono si erano sentiti solo poche volte. Lei con la voce stanca gli aveva detto:

“Cicci non ti preoccupare, fra poco staremo di nuovo insieme”.

Nel frattempo lui si era preso una cagnolina di nome Lola. Era una volpina bianca, bruttina e strabica, che abbaiava di continuo, ma lui l’accudiva con dedizione e amore e la portava a passeggio tutti i giorni nella pineta vicino al mare.

Io spesso lo andavo a trovare. Indossava camicie bianche dal colletto immacolato. Io me lo ricordo da sempre senza un dente in bocca, completamente sdentato, con gli occhi azzurri e umidi che si asciugava di frequente con un fazzoletto bianco. E ricordo il suo odore. Sapeva di legno, di bosco, di terra buona. E io mi stupivo nel vedere come il suo collo fosse solcato da infinite rughe che si intersecavano a  formare rombi e losanghe fin dietro la nuca. Da piccola ci mettevo le dita dentro a quei solchi morbidi, sembravano velluto.

Sul comò, in camera da letto, aveva allestito una specie di altarino sul quale troneggiavano le foto di mia nonna, di Cristina e di mio padre, morto in un incidente automobilistico. Non credo che fosse religioso, ma lui i suoi morti voleva tenerseli lì vicino a sé, per sentirsi meno solo, così diceva.



Una mattina ha telefonato Raoul in lacrime:

“Mi raccomando, diteglielo con tatto: mia madre è morta stanotte”.

Il compito spettava a me e mia madre. Quando mio nonno è venuto ad aprirci la porta ha subito capito.

“E’ morta, vero? Lo sapevo, ho fatto un sogno”.

E sull’altarino c’era già la foto di Tania, sorridente, vicino a quella delle altre due mogli.



Mio nonno è vissuto ancora un paio d’anni. Una quercia, sempre più rugosa e odorosa di muschio.

Se n’é andato in fretta, dopo una sola notte inquieta. A raggiungere le sue tre donne. Che ha amato, ognuna in maniera diversa, con devozione e rispetto.

Ma la più amata, io credo, la più dolce, è stata Tania.

La terza moglie, quella che non ha mai sposato.