lunedì 29 agosto 2016

LETTERA MAI SPEDITA



Cara Mamma, vorrei tanto che tu leggessi questa lettera, ma so che non sarà così. La leggeranno altre persone, persone sconosciute e lontane, e lo faranno con delicatezza e tatto, senza giudicare. Sono anni che penso con terrore al momento in cui te ne andrai. Sempre stata cagionevole, tu. E arrabbiata. E’ come se con ogni tua parola e gesto volessi farla pagare al mondo. Per quello che non hai potuto fare. Per quello che hai fatto e non volevi. Per quello che ti hanno tolto. Per la sfortuna. Per le disgrazie. La tua vita, raccontata da te, con quella veemenza che ritrovi quando parli del passato, sottolineando gli avvenimenti con una drammaticità degna di Eleonora Duse, è un susseguirsi di avventure, colpi di scena, scherzi del destino, occasioni mancate. Come tutte le vite, credo. Ma tu sei convinta  di essere stata l’unica a soffrire, gli altri hanno avuto sicuramente più sicurezze, più stabilità, più consolazioni. E la tua voce, le tue mani che gesticolano nervose, i tuoi occhi vivi e accesi, quando parli così, seppure ferita a morte, addolorata e delusa, lasciano trapelare la tua grande forza e la voglia, tutto sommato, di vivere ancora a lungo. Per carità, mi rispondi quando ti dico che  camperai sicuramente fino a cent’anni, questa non è vita, mi dispiace deluderti, ma non ci sto, non sembri però molto convinta, anche se cerchi come al solito di fare la prima attrice, in un teatro dalle tende di nylon e chiazze di umidità alle pareti, ma pur sempre un teatro. Così sei tu. Non mi hai mai risparmiato le tue emozioni che, quando ero piccola, mi travolgevano, lasciandomi dolorante e impaurita. E dopo, durante l’adolescenza, mi procuravano attacchi di panico e improvvisi rossori, che mi facevano desiderare di diventare invisibile e muta.  E muta sono stata per anni, tu parlavi, parlavi, ancora adesso, quando provo a dire qualcosa mi parli addosso oppure semplicemente mi giri le spalle e ti metti a fare qualcos’altro. Ma non ci resto male più di tanto. Ti vengo dietro e ti accarezzo  le spalle magre e curve (pensare che camminavi dritta come un fuso, adesso ti sei così rimpicciolita!). Quello che provo ora per te è amore puro, senza incrostazioni di rancori o di rimpianti. Amore che non chiede niente. Tenerezza. Mi basta sapere che ci sei. Anche se non posso venire a trovarti per più di mezz’ora alla volta (hai i tuoi ritmi, scanditi da una disciplina sempre più ferrea, ceni alle 7, poi ti prepari per la notte e dopo BLOB ti guardi “Un posto al sole”). Se mi azzardo a venire in quell’ orario, gentilmente mi rispedisci a casa mia. Sono sempre sola, dici, non mi puoi privare degli unici momenti di svago, facendomi intendere che di quello svago io non faccio parte. E sono finiti i pranzi della domenica da te. Non ce la fai, dici, a cucinare per 3 persone. Non importa, va bene così, niente più spezzatino e involtini al sugo, niente più risotti e minestroni. Se capito per caso all’ora di pranzo, ti trovo seduta al tavolo, con le tue mini porzioni delle cose buone che ancora ti cucini, in pentolini sempre più piccoli, come quelli delle bambole. Pazienza. Allora ogni tanto ti porto io qualcosa, un piatto di lasagne (ci mangi per tre volte!), uno sformato di verdure, una fetta di torta, e quando ti passo il contenitore attraverso la finestra ti brillano gli occhi, non dovevi disturbarti, mi dici, ma si vede che sei contenta. A volte, quando non rispondi al cellulare, ho paura. Forse sei caduta o ti sei sentita male. Forse sei morta. Ma a pensarci bene questo pensiero l’avevo anche da bambina, quando all’improvviso svenivi e io ti mettevo un cuscino sotto la testa e ti facevo annusare l’aceto. Stavo con il fiato sospeso fino a quando non riaprivi gli occhi, le piccole mani a farti carezze sulla fronte, protesa a vedere se ancora respiravi. E quando finalmente rinvenivi, pallida, con un sorriso stanco, io provavo una felicità acuta e traboccante. Eri viva, c’eri ancora, lì per me, non te n’eri andata. E provo la stessa  gioia, forse ancora più intensa, quando mi rispondi, con quel leggero affanno che non è riuscito a cambiare la tua voce giovane, da soprano. E’ vero, in questo ti do ragione, hai una voce bellissima, avresti dovuto fare la cantante. Tu mi abbracci di rado adesso, allora ti abbraccio io e chiudo gli occhi. Ti sento un po’ rigida, è per via dei dolori, dici, ma so che se ti abbandonassi a quell’abbraccio dovresti ammettere a te stessa che hai paura. In questo momento un ragazzo Rom sta suonando alla fisarmonica “Besame mucho”. Ballando con quella musica tu e papà vi siete innamorati, e il vostro amore bello e complicato è durato 18 anni, fino a quella maledetta sera dell’incidente. Da allora ti sei ricordata che esistevo anch’io. Ma era troppo tardi. Un anno dopo me ne sono andata a vivere da sola. Adesso non so cosa darei per dormire nel lettone con te. Te l’ho proposto una volta, di rimanere per la notte. Perché? mi hai detto Non ce n’è ancora bisognopiù in là forse. Più in là.  E mi hai girato le spalle fingendo di trafficare con qualcosa.                           
Ti voglio bene, mamma,  so che la sai, ma te lo devo dire. 
Tua figlia                    

lunedì 15 agosto 2016

ESPRESSO SALONICCO (dalla raccolta "BAMBINE")



Settembre 1992.


La bambina ha appena compiuto 10 anni.

E’ abbronzantissima, sembra quasi una zingarella, con quei capelli spettinati e i denti bianchi.

Siamo cariche di bagagli: zaini, sacchi a pelo e una grande busta con regali e giocattoli. Perfino una palla. L’espresso Salonicco-Venezia è affollatissimo. Il nostro scompartimento ha sei cuccette che tireremo giù per la notte. Gli altri viaggiatori, due ragazze e due ragazzi, sono norvegesi. C’è un’afa insopportabile, ci siamo portate solo una bottiglia d’acqua, per il mangiare andremo nel vagone ristorante.  
Il treno parte.
A Skopie salgono parecchie persone che non hanno prenotato e si sistemano alla meglio per i corridoi. Il capotreno fa salire tutti.

I bagni sono intasati, manca l’acqua e dopo un po’ si spande per l’aria un odore acre di latrina.

La bambina non si annoia. Guarda fuori dal finestrino con occhi incantati, poi si mette a disegnare con grossi pennarelli colorati, appoggiata sul ripiano estraibile. In questo periodo disegna soprattutto principesse e fate con lunghi veli azzurri e cavalli sghembi dalle zampe rettangolari. I colori sono vividi, brillanti, fanno allegria.

Proviamo ad andare nel vagone ristorante. Bisogna percorrere tutto il treno. Man mano che camminiamo, i vagoni cambiano fisionomia: tappezzeria damascata bordeaux e tendine di pizzo ai finestrini. E uomini con strani copricapo, che rassomigliano a dei fez. Sembra quasi il carrozzone di un circo. Nell’aria c’è una fitta coltre di fumo. Ma abbiamo fame e continuiamo a camminare facendoci spazio fra sporte di paglia, bambini addormentati, madri con lunghe gonne colorate e denti d’oro luccicanti. Il vagone ristorante è molto affollato. Non c’è nemmeno una donna. Appena entriamo il brusio si interrompe per un attimo e tutti ci guardano. Nessuno parla inglese e io nel mio greco approssimativo riesco a ordinare una specie di zuppa di cavolo, bollente, che ci fa sudare ancora di più. Mentre sto pagando, con la coda dell’occhio vedo che un uomo anziano si è messo la bambina sulle ginocchia e le sta parlando in una lingua dal suono dolce, quasi una cantilena. Mi avvicino, lei mi guarda preoccupata, sorrido e la prendo per mano, poi saluto e ce ne andiamo. Mi tremano le gambe. Forse quel signore voleva solo essere gentile.

Il treno si ferma di continuo in piccole stazioni di campagna.

Il paesaggio è dolce, collinare, con piccole chiese dai campanili aguzzi.

Sta scendendo la sera. Nell’aria c’è una cappa pesante di umidità che ci fa sentire sporche a appiccicose. Il bagno è sempre più impraticabile. L’acqua è finita. La bambina ha di nuovo fame. E io anche.

Ripenso con nostalgia al mare trasparente dell’isola e gli alberi fin sulla spiaggia e per un attimo provo una sorta di refrigerio. Cinque settimane volate via, come in un soffio. E’ stata una bella vacanza.

La bambina sta giocando a scopa con una delle ragazze norvegesi, vedo che gesticolano e ridono, non so proprio in che maniera misteriosa sia riuscita a insegnarle le regole del gioco.

Entriamo lentamente nella stazione di Belgrado. Mi viene un’idea: scenderò a cercare acqua, panini e frutta, c’è tempo, il treno si ferma per mezz’ora. Riesco a comprare tutto in un chiosco azzurro e spendo le ultime dracme.

Quando torno al binario il treno non c’è più. Batticuore. Quasi mi manca il respiro.

Ritorno indietro per vedere se ho sbagliato binario, no, è quello giusto, cerco di mantenere la calma, non ho più un soldo, neanche i documenti, ho lasciato tutto sul treno. Soprattutto mia figlia. Mi metto a piangere. Sulla pensilina vedo un uomo in divisa. Fra le lacrime cerco di spiegargli in inglese quello che è successo. Lui scuote la testa, non capisce. Allora gli parlo in greco, mai sono stata così orgogliosa di parlare una lingua straniera. Lui mi sorride e mi risponde sempre in greco: “Binario 9.” Il treno si è spostato per riparare un piccolo guasto alla locomotiva. Lo ringrazio mille volte, gli butto un bacio con la mano e mi metto a correre. Arrivo esausta, il cuore in gola, le gambe che quasi non mi reggono. Il treno è lì, mancano pochi minuti alla partenza. Salgo trafelata. La bambina sta ancora giocando a scopa e mi dice sorridendo: “Mamma, ho scoperto che Babbo Natale abita in Lapponia, me l’ha detto questa signorina.” E mi indica la ragazza norvegese .

 “Brava, tesoro, ma adesso la mamma cerca di riposare perché è un po’ stanca”.

Poi chiudo gli occhi e non sento più la puzza, la stanchezza e il caldo

Sono felice.

Non mi manca niente.

Su questo treno c’è tutto quello che mi serve.





lunedì 8 agosto 2016

LA PERFEZIONE DELL'AMORE





Quando conosci la perfezione

Dell’amore

Il suo smarrimento

Incredulo e felice

L’appartenenza di diritto

Finalmente

A questa terra

L’assoluta armonia delle parti

Come in un quadro d’artista

L’alternarsi di giorno e notte

Entrambi perfetti

Come pure i minuti

L’attesa

Che si fa vibrazione

L’odore dei corpi

D’estate

Le mani a tastarsi

Gli abbracci in silenzio

Gli sguardi fra gli altri

Come segnali di fumo


E’ difficile lasciarla andare

E sentirsi orfani di nuovo

Di tanta bellezza


Il buio che cala

Dura per anni

E la luce che penetra dopo

È luce fredda

Che illumina

Giusto quel poco

Che basta

Alle azioni normali


Allora pensi

Che forse era meglio

Un amore imperfetto

Di quelli che durano sempre

E non abbagliano gli occhi

Luce calda e serena

Che non si spegne

Per  corto circuito

Improvviso

Luce che illumina il viso

Con i suoi segni di spazio

E di tempo

Luce che scalda e ripara

Dalla paura e dallo strazio.












giovedì 4 agosto 2016

LA MUCCA SOLA



C’era una mucca, bianca, con qualche  chiazza marrone. Era una mucca triste, una mucca sola, in un posto poco illuminato. La sua figura si componeva mettendo al posto giusto dei cubi di cartone. Gli altri disegni a comparire erano quelli di una giraffa e di un asino. E forse un’aia con delle galline. Non ricordo altro. Ci mettevo poco ormai a comporre le immagini. Ma quella della mucca mi metteva un’infinita tristezza. Adesso che ci penso forse è perché non era in un prato, al sole, ma in un posto all’ombra e al chiuso. Forse era una stalla. E non c’erano altre mucche.
Lei lì da sola. Avrò avuto al massimo due o tre anni e riuscivo già a provare empatia per un animale tenuto al buio, in solitudine. Ma cosa mi evocava quell’immagine? C’è una foto di me, molto piccola, in un cortile brullo, con un altro bambino che mi dà un bacio. Io sorrido, ma ho l’espressione triste. Sono appena uscita da un periodo di malattia e ho l’aspetto cagionevole. Come sfondo c’è un muro grigio e scrostato, sul quale si arrampica un ramo di glicine secco. E’ inverno e sembra, guardando quella foto, di sentire il gelo. Io indosso una gonnellina scozzese e un maglione di lana. Ho i calzini corti e delle scarpe bianche dalla punta arrotondata. Ecco, guardando quella foto io provo la stessa sensazione di sconfinata solitudine che provavo guardando quella mucca. Buio, freddo, squallore. Chissà, forse anche la mucca era stata malata, e ora la tenevano lì, lontana dalla famiglia, in convalescenza. Chissà, forse la mucca era in castigo, non era stata abbastanza brava, non aveva prodotto abbastanza latte, era una mucca ribelle. O forse la mucca era stata abbandonata, gli altri semplicemente si erano dimenticati di lei e se n’erano andati via, lontani. Questi erano i pensieri che mi passavano per la testa allora.
Tempo fa ho comprato un vassoio di legno con due manici, dal disegno naif. C’è una mucca  proprio nel centro, in mezzo a un prato, con un cielo azzurro e intorno degli alberi fioriti. E’ un disegno allegro e finalmente la mucca è al posto giusto e sembra contenta. Ma la prima volta che l’ho visto, per un attimo ho riprovato una fredda sensazione di solitudine e ho ricordato quel gioco in scatola, di cubi da comporre, quel gioco triste di quando ero bambina.