domenica 22 maggio 2016

REGINA (dalla raccolta "BAMBINE")





  
La mamma e il papà salirono sulla macchina. Dal finestrino aperto la mamma le dette un ultimo bacio: “Torniamo presto, sta’ tranquilla, staremo via solo qualche giorno. E potrai giocare con Bibi, vedrai ti troverai bene”.

Caterina rientrò in casa e si sedette su una sedia in cucina. Barbara stava impastando gli gnocchi sul tavolo di marmo. Le sue mani piccole e grassocce, incrostate di patate e farina, erano velocissime a trasformare quella massa morbida e informe in serpentelli fini che tagliava con il coltello in minuscoli rettangoli e poi, con un tocco lieve, faceva scivolare sul dorso di una forchetta creando dei piccoli solchi. “Così il ragù  può penetrare e condirli meglio” disse Barbara con un sorriso. Ma Caterina aveva la faccia seria.
“Su Bibi, andate in cameretta, così potete giocare un po’ prima di pranzo.”
Caterina seguì a malincuore Bibi e si sedette sul bordo del letto. La stanza era in penombra. Faceva caldo. I mobili erano dozzinali, di finto legno. In un angolo c’era una scrivania di teak e ferro, con una gamba zoppa e un  mattone rosso che cercava di bilanciarla. Ma dondolava e non ci si poteva appoggiare sopra. Bibi si era sdraiato a pancia in giù sul pavimento e giocava con i soldatini che aveva sistemato all’esterno di un fortino. Più lontano aveva messo gli apaches e i cavalli.
“Io sono una femmina, non mi piace giocare agli indiani” lei disse sottovoce, come a scusarsi.
Bibi sospirò, come un grande. Aveva i pantaloni corti e un paio di sandali di cuoio che gli stavano piccoli, il secondo dito del piede spuntava fuori di qualche centimetro. Caterina lo stava guardando.
“Ho il piede etrusco. Ce l’hanno le persone aristocratiche, è un segno di nobiltà L’ho letto sul libro di storia” disse Bibi,orgoglioso.
Caterina non rispose. Bibi le faceva un po’ pena. Era goffo e aveva lo sguardo spiritato. Aveva sentito dire dalla mamma che Barbara si era separata dal marito quando lui era molto piccolo e che adesso aveva un amante. Un ex pugile un po’ suonato, amico del papà. Che aveva moglie e figli e le passava un piccolo assegno mensile. Insomma Barbara era una “mantenuta”. Quella parola le suonava misteriosa e strana. Caterina non la capiva. Il padre di Bibi viveva in campagna e non aveva più voluto vedere suo figlio.
Che ci faceva adesso lei in quella casa con quel ragazzino strano e quella donnetta dimessa che impastava gnocchi? I suoi erano dovuti andare all’improvviso al Nord perché la nonna era stata ricoverata all’ospedale e aveva bisogno di assistenza. Genesio, il pugile suonato, aveva detto al papà che la sua donna sarebbe stata contentissima di ospitare la bambina.
“ Vedrai, la tratterà come  una principessa.”
La mamma prima di andarsene le aveva preparato una piccola valigia. Dentro ci aveva messo anche Regina, la bambola africana, ma Caterina si era vergognata a
tirarla fuori. Aveva sistemato le sue cose in un cassetto, ma  Regina no, l’aveva tenuta nascosta. Se Bibi l’avesse vista sicuramente l’avrebbe presa in giro.
Infatti. “E tu  con che cosa giochi? Alle bambole?” Bibi aveva la faccia strafottente e triste nello stesso tempo.
“Qualche volta, ma non sempre”.
Caterina pensò che nella stanza c’era un letto solo. E che d’estate lei era abituata a dormire solo con le mutandine.
Era un pensiero che la preoccupava.
Entrò Barbara pulendosi le mani sul grembiule. Aprì un cassetto del comò e tirò fuori una coppia di lenzuola bianche e due federe.
“Bibi, cambia le lenzuola e metti le federe ai cuscini. Dormirete uno a capo e l’altra a piedi. Va bene no, Caterina? Tanto siete magri. Per qualche giorno verrà Genesio a stare qui. Sta facendo un lavoro da manovale da queste parti. Sennò Bibi poteva dormire con me nel letto matrimoniale.”
Barbara aveva accennato una specie di sorriso, ma si vedeva che era imbarazzata.
Caterina pensò che Barbara era gentile. E che le faceva pena anche lei. Forse più di Bibi.


Gli gnocchi erano buoni, anche se il ragù era un po’ troppo liquido. Bibi mangiava con avidità, inforcando le posate senza grazia. Ma Caterina non aveva fame. Scostò il piatto.
“Basta così, grazie.”
“Vuoi una pesca, una banana? C’è un pezzo di anguria che ha portato ieri Genesio. Ti va?”
Caterina scosse la testa. Uscì sul balcone mentre Barbara lavava i piatti. C’erano due piante di geranio rinsecchite, una piantina di basilico e un cactus impolverato. Appoggiato in un angolo, un barbecue con una griglia arrugginita e un po’ di carbonella. Un pino storto ombreggiava il cortile e dai cespugli di oleandro rosa saliva il frinire delle cicale.
Il caldo era insopportabile.
Caterina si sedette su una sedia di plastica aspettando che il tempo passasse.
Bibi arrivò con una pila di giornalini e si accovacciò per terra con la schiena appoggiata al muro, sotto il vano della finestra. Lei prese a sfogliarne uno. Era la prima volta che guardava un giornalino da maschi. Meglio di niente. In un fumetto c’era uno sceriffo che con due pistole faceva secchi indiani e banditi. Bang bang. E un saloon dove i cow boys si andavano a ubriacare di scotch e di tequila.
Era una storia stupida.
Lei aveva finito di leggere da qualche giorno “ Piccole Donne”. La sua sorella preferita era Jo, l’aspirante scrittrice, quella che a un certo punto si fa tagliare i capelli per venderli e portare qualche soldo a casa. Ecco, lì Caterina si era commossa. E anche immedesimata molto. Lei non ce l’avrebbe mai fatta a sacrificare la sua coda di cavallo. Ci aveva messo più di un anno a farsela crescere. Insomma Jo era stata veramente coraggiosa. Invece i personaggi di quei fumetti in bianco e nero non le suscitavano nessuna emozione.
Niente.
Chissà se Bibi aveva mai letto un libro vero?
La mamma e il papà leggevano molto: il papà leggeva dei libri polizieschi dalla copertina gialla, la mamma aveva comprato una serie di romanzi americani dalla copertina verde che teneva ben allineati su un piano della libreria. In quella casa invece non c’era traccia di libri, di nessun colore. Non c’era nemmeno un libreria. Solo giornalini e rotocalchi femminili accatastati in un portariviste di rafia accanto alla televisione.


Dal campanile della chiesa si sentirono tre rintocchi cupi.
Il pomeriggio era appena cominciato.
“Bibi vieni ad asciugare le posate!”
Bibi si alzò controvoglia, con i suoi piedi etruschi scalzi.
Caterina rimase da sola, a guardare il pino storto, il cortile deserto e un’ape che ronzava appoggiata su una spina del cactus. Restò per un po’ a osservarla. Chissà se ce l’avrebbe fatta a staccarsi da lì, forse la spina l’aveva ferita. Invece l’ape riprese a volare e andò a posarsi sull’inflorescenza bianca del basilico.
Il campanile fece un solo rintocco. Le tre e mezzo. Dalla finestra di fronte si sentiva un televisore. O forse era una radio. Trasmetteva la cronaca di una corsa automobilistica.
Un vecchio dormiva a bocca aperta su una poltrona di pelle.
Un cane abbaiava.
Un aereo solcò il cielo lasciando dietro di sé una lunga  scia bianca.
Non c’era neanche una nuvola.
Caterina non si era mai accorta prima di quanto potesse essere lungo un pomeriggio d’estate.
E di quanto le mancasse la scuola.
Per consolarsi pensò che la nonna del Nord sarebbe guarita presto e i suoi genitori sarebbero venuti a prenderla prima di quanto sperasse.
E pensò anche che quella notte avrebbe indossato la maglietta rosa con la Sirenetta e si sarebbe rannicchiata, piccola piccola su un fianco, cercando di non intrecciare le sue gambe a quelle ossute di Bibi.
Forse avrebbe tirato fuori dalla valigia la bambola Regina.
Così. Per tenersi compagnia.
Quei pochi giorni sarebbero passati in fretta.
Anzi.
Sarebbero volati.








domenica 15 maggio 2016

ETERNI O QUASI (dalla raccolta "BAMBINE")





La spiaggia è un tappeto di alghe secche, tiepide di sole e lisce come nastri di seta. Io ci affondo i piedi e sorrido. E’ la prima domenica di mare, mi sono messa il costume dell’anno scorso, è quello giallo di lana, quando esco dall’acqua è tutto zuppo e prima che si asciughi ci vogliono delle ore. Quello di filanca a nido d’ape  non mi sta più, sono cresciuta, ma anche questo mi sta stretto, mi tira all’inguine, mi fa il solletico proprio lì…. Ho le gambe lunghe e secche, le braccia esili, una spalla più avanti dell’altra, me la sono lussata da piccola una mattina, mentre la mamma mi infilava il grembiulino a quadretti bianchi e rossi dell’asilo, ancora ricordo il dolore, poi è arrivato il dottore e me l’ha rimessa a posto, ma un po’ è rimasta spostata, mi resterà così per sempre, è quella destra.

Oggi mangeremo in un ristorantino a picco sul mare, io, mamma e papà. Mi piace quando stiamo tutti insieme, mi fa allegria. Papà è sempre in giro per l’isola, ritorna il sabato sera, quando arriva fa una scampanellata festosa e io sono felice. Mi ci arrampico subito addosso per dargli un bacetto, mi piace il suo odore, di tabacco e di acqua di colonia, di grasso di macchina e di motore, non so bene, è l’odore di quando ha guidato parecchio. La mamma, quando lui arriva, si pulisce le mani sul grembiule e lo abbraccia e per un po’ rimangono abbracciati in mezzo alla stanza.

In questa foto ho i capelli tagliati alla maschietta. Me li tagliano sempre così, io vorrei le trecce, come la mia amichetta Tiziana, quella del piano di sopra, ma la mamma dice che non ha il tempo di lavarmeli e pettinarmeli e che corti sono più pratici. Ma io non sono convinta per niente, quando sarò grande mi farò crescere i capelli fino al sedere e mi divertirò a fare delle lunghe trecce o una ghirlanda intorno alla testa, insomma, quando potrò decidere io me li laverò in una tinozza di smalto bianco e poi li lascerò asciugare al sole, lunghi lunghi, morbidi e lucenti.

Il bagno in mare ancora non l’ho fatto, sono solo i primi di giugno, l’acqua è ancora fredda, comunque mi sono portata dietro il salvagente, quello con Pippo e Paperino. Io non so nuotare, la mamma nemmeno, lei si mette a mollo con la braccia aperte  e sembra una papera, che fa leggermente su  e giù, papà invece si tuffa con un doppio salto mortale e io ogni volta ho paura, mi batte forte il cuore, mi sembra un saltimbanco, è bello quando poi colpisce l’acqua con la pancia e fa quel rumore e incomincia a nuotare a bracciate ampie e scompare al largo per qualche minuto. Ma esce quasi subito, grondante di goccioline luminose e con la pelle d’oca, e saltellando sulla sabbia bollente si mette ad addentare una pesca. Speriamo che quest’anno m’insegni a nuotare, magari senza salti, mi basterebbe stare un po’ a galla e andare con la testa sotto a vedere granchi e pesciolini sul fondo, deve essere bello, la mia amichetta Tiziana mi ha detto che è come stare con la testa in un acquario, solo che il mare è molto più grande e non si sentono i rumori.

In questo momento papà sta piantando l’ombrellone e mamma fa il cruciverba seduta sulla seggiolina di legno, con un cappello di paglia. Fra un po’ lui si sdraierà al sole a pancia sotto e si addormenterà con la bocca aperta. Diventa subito nero nero, mamma invece si brucia e le viene la pelle rossa a chiazze, io anche mi brucio un po’ e poi mi spello tutta, mi piace tirare via la pelle piano piano, ci passo le mezze ore, solo che poi rimango macchiata e sembra che non mi sono lavata bene il collo, invece me lo lavo tutti i giorni, e anche le orecchie, il bagno lo faccio una volta a settimana la domenica mattina nella vasca con le bolle di sapone e la radiolina a transistor sul bordo, d’estate anche di più perché sudo e dopo la mamma mi mette il borotalco, come quando ero piccola. Mi dispiace un po’ che sono cresciuta, tutte le mie amiche vogliono diventare grandi, io no, vorrei rimanere sempre piccola perché ho visto che i grandi non sono poi così felici, non ridono quasi mai, lavorano, lavorano e sono sempre corrucciati con quella ruga dritta in mezzo agli occhi e parlano di rate, cambiali, bollette, straordinari, di cose che mi annoiano, uffa, la mamma per esempio non si riposa mai, a volte sta in ufficio anche il sabato e io quando torno da scuola me ne devo stare sola tutto il pomeriggio con la ragazza, ormai ne abbiamo cambiate cinque o sei, a me piaceva molto una che si chiamava Lilli, aveva 16 anni, ma una notte si è sentita male, le è venuta l’appendicite e se la sono venuta a riprendere i suoi per portarla in ospedale al paese. Non è più tornata, peccato, io con lei mi divertivo molto, cucivamo i vestitini per le  bambole e poi andavamo ai giardini, io correvo e saltavo la corda o giocavo con gli altri bambini a nascondino, mentre lei, seduta sul muretto, ricamava le sue iniziali sugli asciugamani bianchi del corredo, ma si vedeva che anche lei aveva voglia di correre e giocare. Quando mi sposo voglio pure io un corredo tutto pizzi e merletti e lenzuola di seta e di lino. Mi voglio sposare con il vestito lungo, bianco, con lo strascico,  non come la mamma in tailleur, senza invitati, mi ha detto che  siccome io ho deciso di arrivare prima del previsto, quando ancora non erano sposati, le nozze le hanno dovute fare in fretta e furia. Ma nelle foto del matrimonio non si vedono i nonni, solo i colleghi della mamma e lo zio Paolo, e la mamma ha un’espressione dolce dolce, ma un po’ triste,  e il papà la faccia spavalda e un ciuffo che gli cade sugli occhi. Era giugno, proprio come adesso, e c’era un portico con i glicini.

Questa spiaggia mi piace, ma preferisco quella di Porto Pino,
con quegli alberi nani fin sulla riva e il profumo di scoglio e quelle rocce lisce e scavate dove mi piace stare a mollo per ore, con l’acqua tiepida come in una vasca da bagno, senza onde pericolose. Ecco, lì in quel mare profumato, a occhi chiusi con il sole sul viso, io sento quella cosa alla bocca dello stomaco che credo si chiami felicità, che poi è la stessa che provo quando torna il papà il sabato sera e quando lui abbraccia la mamma che sta lavando i piatti o le prende la mano mentre sta guidando e alla radio trasmettono musiche da film. In quei momenti vorrei fermare il tempo e restare bambina, non importa se ho i capelli alla maschietta e una spalla più  spostata dell’altra e sono lunga e secca e mi stanno cadendo i denti davanti, vorrei restare così per sempre, con mamma e papà che si vogliono bene e la macchina blu che sfreccia sulla litoranea e la sicurezza che niente di male, mai, potrà accaderci, mai, tutto è perfetto, così com’è, limpido, senza sbavature, non ci sarà nessuna disgrazia, nessun incidente, nessuna solitudine, sconfinata e fredda, nessuna paura, nessun distacco. Così per sempre.
Eterni o quasi.
Come questa foto che sorride.

mercoledì 4 maggio 2016

IL LADRO DI BAGDAD (dalla raccolta "BAMBINE")




Il dentista è gentile. L’accoglie con un sorriso e le fa un buffetto sulla guancia. Lo studio è tutto bianco e nell’aria c’è un odore fresco di menta e chiodi di garofano, un odore buono. Lei si sente stranamente calma. E pensare che una settimana prima, nell’altro ambulatorio, era successo il finimondo. Non appena aveva visto la siringa con quell’ago lungo e sottile, come le antenne di un grillo, aveva cominciato a urlare. Il dentista cercava di tenerla ferma con le ginocchia mentre un’ infermiera grassa e sudata le reggeva la testa. La mamma, seduta in un angolo, aveva la faccia preoccupata e continuava a dirle: “Stai calma”.
Ma lei aveva paura, anzi terrore.
Alla fine era riuscita a divincolarsi e ad alzarsi dalla sedia. Ma un po’ di liquido anestetico era stato già iniettato e  lei si sentiva la guancia tutta gonfia e strana. Il dottore sembrava arrabbiato e l’infermiera scuoteva la testa. La mamma, mortificata, aveva detto: “Ci scusi tanto …è la prima volta che la vedo così impaurita…mi dispiace… quanto le devo?”
Ma il dentista non aveva voluto niente.
Erano tornate a casa senza dire una parola. Poi la sera, prima di sprofondare nel sonno, lei aveva sentito che la mamma diceva al papà: “Io non ce la faccio. Mi viene l’ansia. Per favore  portacela tu.”
Adesso il papà è lì accanto a lei e le tiene la mano. Le ha promesso che non le farà fare l’iniezione.
E lei di lui si fida.
Se le ha detto così, così sarà.
E infatti il dentista, seduto su un sgabello vicino alla poltrona reclinata, le sta mostrando una pompetta di gomma azzurra che sembra lo spruzzino della boccetta di profumo della mamma.
“Ecco, ti spruzzerò un po’ di questa sostanza sulla gengiva  e tu non sentirai niente. Te lo prometto. Sennò, alla fine ti autorizzo a darmi un ceffone. O un calcio nel sedere. Va bene?”.
Lei ride, con un sorriso sdentato e fiducioso. Le sono caduti due denti davanti e adesso deve togliere quel premolare cariato. Il papà le stringe la mano.  Lei chiude gli occhi.
Sente solo una sensazione di freddo e un lieve pizzicore.
“Ecco fatto”.
Il dentista le mostra il suo piccolo dente appoggiato su una garza. E’ circondato da macchie nere ed è senza radice. Lei si sciacqua la bocca con un’acqua che sa di fragola.
Ce l’ha fatta. E’ stata coraggiosa. E adesso il papà per premio la porterà al cinema.


 Camminano per la strada mano nella mano e lei ha la faccia soddisfatta. E’ un bel pomeriggio, manca poco al tramonto, l’aria è rosata e tersa. Nelle aiuole intorno agli oleandri sono fiorite le violette e i giacinti. La città vecchia, con i bastioni bianchi su in alto, sembra una fortezza luminosa. Non è la sua città, ma l’ha amata sin dal primo momento. Come pure ha subito amato la scuola, con tutti quei banchi colorati e l’acquario nell’atrio. E la giovane maestra e i suoi compagni, con i grembiuli rosa e azzurri. E’ proprio contenta di vivere lì, le piace.
Il film è già incominciato, ma la sala è deserta. La maschera li accompagna fino a una fila di centro. Le poltrone sono morbide, di velluto. Con i piedi lei non arriva a terra. Il papà le tiene la mano. Sullo schermo ci sono degli uomini dalla faccia cattiva  che, con le scimitarre sguainate, inseguono  un ragazzo con un turbante in una foresta di alberi pietrificati che all’improvviso si trasforma in un giardino di rose turchine. Lei si sente stanca. Il giorno dopo racconterà a Marinella, la sua compagna di banco, del dente e di quel liquido alla fragola e di quel bellissimo film che sta vedendo mano nella mano con il suo papà, da soli, come due innamorati. E che lui indossa un completo grigio fumo di Londra e una camicia bianca e la signorina che fa la maschera ha un gilè con i brillantini e una pila accesa e il dentista è stato gentile e lei non ha avuto paura, è stata brava…. Ma adesso ha solo voglia di chiudere gli occhi e riposare un po’, al morbido del velluto, con la testa appoggiata alla spalla del suo papà, in un cinema della città vecchia dove stanno proiettando solo per loro  “Il ladro di Bagdad”, in quel pomeriggio tiepido di quasi primavera, dal sapore di fragola, come di caramella.

lunedì 2 maggio 2016

LIMONI ( racconto)




Da quando quell’uomo era venuto ad abitare al piano di sopra, lei aveva paura.
Paradossalmente si sentiva più al sicuro a vivere tutta sola, in quel palazzo un po’ malandato del 700 con il portale antico di marmo che cadeva a pezzi e le scale buie dalle mattonelle consumate. Prima di rientrare, la sera, si faceva coraggio, saliva gli scalini due alla volta con un leggero affanno e poi si richiudeva rapida la porta alle spalle. Ecco, era al sicuro, metteva il paletto e si accendeva subito una sigaretta. La sua casa era lì, fedele e materna, ad accoglierla con i suoi muri possenti e le finestre ampie che si affacciavano sulla piazza dai ciottoli squadrati. Ci pensavano le campane della Cattedrale a rompere il silenzio ogni mezz’ora. Per il resto la notte era silenziosa, un silenzio perfetto, appena impreziosito da scricchiolii vari, il respiro del mare in lontananza e il canto di qualche civetta. A volte un gufo si metteva a bubolare sul davanzale della finestra, ma non le dava fastidio, era come un brontolio sommesso che le teneva compagnia.
Poi un bel giorno era arrivato lui.
Aveva sentito girare la chiave, 5 giri completi, nell’appartamento all’ultimo piano, da sempre disabitato. Il cuore aveva preso a batterle all’impazzata. Dopo una mezz’ora avevano suonato alla porta. Lei aveva aperto uno spiraglio, tenendo il catenaccio con la mano.
“Salve, sono il Cavalier Riccomini. Mi sono trasferito qui, vengo da lontano.”
Aveva un’età indefinibile, sembrava un giovane invecchiato precocemente, il volto solcato dalle rughe e gli occhi azzurri dalle palpebre cadenti. Ma la voce era squillante. Non era una voce da vecchio. Lei aveva aperto la porta, senza farlo entrare. Dandogli la mano si era accorta che lui indugiava nella stretta qualche istante di troppo.
Pochi convenevoli:
“Benvenuto nel palazzo.”
“E’ bello sapere che al piano di sotto abita una giovane donna.”
“... se ha bisogno di qualcosa, non so … per orientarsi nel quartiere … mi chiami pure.”
“Grazie, lo farò.”
Poi  lui se ne era andato, con le spalle curve, salendo le scale a fatica.
Aveva strani orari. La notte lo sentiva passeggiare su e giù fino all’alba. I suoi passi coprivano il verso del gufo e il rumore del mare e un po’ le dispiaceva.
Iniziò a usare i tappi di cera. E a fare sogni inquieti.
Una mattina incontrò il Cavaliere al mercato della Marina. Indossava un antiquato cappotto, lungo fino ai piedi, di un panno pesante, blu, con delle strane spalline. La sua testa grigia era china su un banco di ortaggi. Aveva un paio di guanti con le mezze dita, di lana lisa. Sembrava un nobile decaduto, diventato barbone. Ma si vedeva che era pulito e, a parte un vago odore di naftalina, emanava un profumo di saponetta alla rosa e di acqua di colonia. Le fece un cenno di saluto, mentre sceglieva con attenzione dei limoni, scartando quelli più verdi.                                  

Una notte lo sentì gridare. Un grido soffocato, di dolore, di angoscia. Che la spaventò moltissimo. Salì e rimase in ascolto. Silenzio assoluto. Poi di nuovo quel grido, venato di strazio. Il campanello non funzionava e lei si mise a bussare energicamente. Nessuna risposta. Ma non riusciva ad andarsene. Se ne stava lì, imbambolata davanti alla porta. Nell’aria un’ intensa  fragranza di giacinti.
“Cavalier Riccomini, ha bisogno d’aiuto?”
Una voce che sembrava venire dall’oltretomba rispose: “Non è niente, una delle mie solite coliche, stia tranquilla.” Lei se ne tornò a letto, ma non riuscì a riprendere sonno.
La cosa si era ripetuta un paio di volte. Ormai lei a casa cercava di starci il meno possibile. Rimaneva nello studio a sbrigare le pratiche arretrate. Ordinava una pizza o una pietanza al cinese e si scolava un paio di birre. Aveva anche aumentato a dismisura il numero delle sigarette. Si sentiva come malata.
Tornava a notte fonda, giusto in tempo per sentire i passi strascicati del Cavaliere.
Cambiò marca di tappi per le orecchie. Quelli di cera non erano sufficienti. Con la gommapiuma forse sarebbe andata meglio.
Una notte si accorse che all’improvviso era calato uno strano silenzio. Ma non era quello ovattato al quale ormai si era abituata. Non c’era più nessun rumore da cui proteggersi.
Né quello del mare, né quello delle campane, neppure quello del gufo. Si tolse i tappi: un silenzio perfetto. Un silenzio irreale, di pace assoluta. Durò qualche minuto, poi lentamente ritornarono i suoni. Ma niente più passi.

L’otorino le disse che aveva un udito normalissimo. E che forse aveva sofferto di un fenomeno di derealizzazione. A volte, quando si è molto stanchi succede. E lei era molto stanca.
“Signorina si prenda una vacanza, vedrà, le farà bene”. Si era sentita subito sollevata
Quello stesso pomeriggio le suonò il campanello la proprietaria dell’Agenzia Immobiliare sotto casa. Al suo fianco un operaio con una cassetta degli attrezzi:
“Siamo venuti a vedere in che condizioni è l’appartamento al piano di sopra. Non vorremmo spaventarla con i rumori, l’appartamento è disabitato da anni…  l’unico erede, che vive in America, si è finalmente deciso a venderlo.”
“ Come disabitato?  C’era il Cavaliere…”
La signora dell’Agenzia scoppiò in una risata fragorosa:
“Anche lei si è fatta prendere da quelle strane suggestioni… chissà forse le hanno raccontato qualcosa…
“Qualcosa… cosa?”
“L’ultimo ad abitare la casa è stato il Cavalier Riccomini. Quando la sua adorata moglie è morta, dando alla luce il loro unico figlio, vissuto poche ore, lui si è barricato in casa, uscendone solo per andare al mercato a comprare i limoni, che sua moglie, quando era in vita, utilizzava per fare dei meravigliosi centrotavola. Poi glieli portava al cimitero, al posto dei fiori. Un grande amore. Era credo, la fine degli anni 20. Ecco, la Signora aveva una trentina d’anni, proprio come lei, dicono che fosse molto bella. Dicono anche che lui sia morto di crepacuore. Ma mi scusi, le sto rubando del tempo prezioso. Arrivederci!”
Lei rientrò in casa e si  sedette sulla poltrona. Aveva la testa vuota e le gambe molli: forse era sotto stress e aveva immaginato tutto. Doveva prendersi solo un po’ di riposo, partire, svagarsi.
Sì, tutto era sotto controllo, il respiro si era calmato. Il giorno dopo sarebbe andata a prenotare una vacanza. Guardò le isole dalla finestra. Per un gioco di correnti sembravano sospese nel cielo rosa del tramonto. “Sono fortunata ad avere una vista così – pensò - molto fortunata. Ma me ne devo andare per un po’, lontana da tutto questo.”
Si accorse di avere una sete terribile, un’arsura che le seccava le labbra.
Andò in cucina e si riempi un bicchiere d’acqua. Si fermò di soprassalto con il bicchiere a mezz’aria: al centro del tavolo, in un piatto di porcellana bianca, c’era una composizione di limoni.
E nella stanza, quasi impercettibile, aleggiava un profumo di giacinti.