In quella stanza
di quella casa, che era una vera casa, con dentro una vera famiglia, lei si
svegliò con un acuto mal di denti. Le avevano sistemato una brandina ai piedi del letto dei Cacciapuoti.
Guido dormiva su un materasso per terra. Lo dovette scavalcare, piano, per
andare in bagno. La lampadina era
molto fioca. Salì su uno sgabello e si mise a bocca spalancata davanti allo
specchio. Non riusciva a vedere quasi niente, solo una piccola macchia scura al
posto del premolare. Il dolore era aumentato. Ora era pulsante. La guancia era
leggermente gonfia. Il pendolo fece due rintocchi. Dalla stanza da letto
sentiva il respiro tranquillo della Signora Mara mentre il marito russava a
ondate intermittenti, intervallate da sibili e fischi. Non sapeva che fare.
Andò in salotto e si sedette su una poltrona, coprendosi con un vecchio plaid
scozzese con le frange. Avrebbe voluto dormire ma il dolore era troppo forte.
Si mise a guardare le mattonelle di graniglia. Erano tirate a lucido, con delle
greche marroni che formavano una stella al centro della stanza. Una pianta di
ficus dalle foglie carnose e lustre riempiva quasi tutta la veranda. Da lì si
scendeva nell’orto-giardino. Sulla credenza c’erano foto di famiglia: le
quattro ragazze durante una gita in montagna, la prima comunione di Guido, il
Signor Giacomo e la
Signora Mara in viaggio di nozze a Venezia, su una gondola... A
casa sua non c’erano foto e neppure una credenza. Solo le cose più essenziali.
Ogni volta che facevano un trasloco lasciavano qualcosa. “Tanto poi lo
ricompriamo”. Ma non era vero. E così avevano una casa spoglia. Le reti, i
materassi, un tavolo con delle sedie, al posto del divano una branda con un
copriletto a fiori. Basta. Né quadri, né cuscini, né piante.
Il giorno prima
c’era un sole splendido e lei e Guido avevano giocato a nascondino, vinceva
sempre lui perché conosceva tutti i nascondigli, ma lei era contenta lo stesso.
Guido era alto e smilzo, con le ginocchia ossute e una folta peluria sul labbro
superiore. Le sue quattro sorelle erano bionde e frequentavano il ginnasio e le magistrali. Avevano tutte un
nome che iniziava con Maria: Maria Rosa, Maria Assunta, Maria Chiara, Maria
Sole. La Signora Mara
aveva fatto un voto alla Madonna perché non riusciva ad avere bambini. E aveva
funzionato perché una dopo l’altra aveva sfornato le quattro bambine. Guido era
nato dopo tanti anni. Adesso faceva la
III elementare, come lei, ma sembrava più grande. La Signora Mara portava
una treccia grigia arrotolata intorno alla testa, suo marito aveva i capelli
tutti bianchi e dei baffoni argentati. Sembravano due vecchi e le facevano un
po’ di soggezione, anche se erano molto affettuosi. Ma adesso lei era lì per le
vacanze di Pasqua e i suoi sarebbero venuti per il pranzo della Domenica. Dovevano
lavorare tutta la settimana, le scuole erano chiuse e i Signori Cacciapuoti
erano così gentili, “ ti va vero di passare qualche giorno con Guido e le
ragazze, vi divertirete un mondo”. E infatti si stava divertendo parecchio, era
persino andata ad assistere a un saggio di musica dove Guido cantava, non
pareva neanche lui, aveva un papillon rosso e con il microfono in mano sembrava
più grande e disinvolto. Forse perché le sue ginocchia ossute erano nascoste
dai pantaloni lunghi, forse perché si era pettinato con il gel, insomma non era
poi così male. Dopo il saggio avevano mangiato dei pasticcini e bevuto l’aranciata
e a un certo punto Guido l’aveva presa per mano e l’aveva portata in cortile a
vedere una gatta che aveva appena partorito sei gattini: erano umidi e
tremanti, con gli occhi chiusi, e delle code striminzite, sembravano dei topi.
Era stato lì, mentre lei ne accarezzava uno, che lui le aveva dato un bacio
sulla guancia. Poi aveva sorriso scoprendo i suoi incisivi frastagliati e lei
si era sentita contenta.
Si rese conto di
essersi addormentata per qualche minuto, forse mezz’ora. Il dolore era
diventato quasi familiare, le teneva compagnia. Solo a tratti pungeva e lei
doveva mettersi la mano sulla guancia per darsi un po’ di calore e avere un’apparenza
di sollievo. Si mise a pensare alla camicetta che le aveva regalato Maria Sole,
la più piccola delle sorelle: aveva le maniche a sbuffo e dei ricami davanti a
punto croce. L’avrebbe potuta mettere il giorno di Pasqua con la gonna a pieghe
blu e le scarpe bianche con i calzini di pizzo. Il cappellino di paglia quello
no, lo detestava, glielo aveva regalato la nonna, ma lei se l’era messo solo
una volta, per educazione e per non offenderla. Ma stavolta lo avrebbe lasciato in fondo alla valigia.
Guido si mise a
parlare nel sonno, poche parole, senza senso, mentre il Sig. Cacciapuoti
russava sempre più forte. Le giornate si erano allungate, adesso il sole
sorgeva prima. Dai vetri della veranda si intravedeva un chiarore nitido e
rosato. Anche gli odori erano cambiati: dal giardino stava salendo un profumo di
macchia e di lavanda, misto a quello delle rose. Era aprile inoltrato e stavano già sbocciando. Quando torno a casa voglio piantare qualche fiore sul balcone,
pensò. La mamma non ha tempo, li innaffierò io tutti i giorni e li concimerò e
ci metterò dentro i fondi di caffè come ho visto fare alla Signora Mara che ha
tutte queste piante belle rigogliose, le spolvera pure, foglia per foglia, ci
parla, le accarezza, le guarda con amore. La mamma dice che le piante sono
belle ma poi muoiono e lei non sopporta le cose che muoiono, sporcano, fanno
sudicio, bisogna raccogliere le foglie secche, vengono le formiche o
addirittura gli scarafaggi, a lei piacciono solo le stelle alpine, quelle tutte
pelose, ma stanno solo in montagna e a dire la verità un po’ mi sembra una
scusa. Le piante sono belle, mi fanno allegria, le foglioline appena nate sono
come quei gattini, umide e appiccicose… Pensò anche che la mamma non amava i
gatti e nemmeno i cani, anzi dei cani aveva proprio terrore, perché una volta,
quando era piccola, un lupo le si era avventato addosso ed era rimasta due
giorni senza parlare per lo spavento. I Cacciapuoti avevano un vecchio cane che
si chiamava Ulisse, lo tenevano nell’orto, aveva una cuccia di legno e abbaiava
da cane vecchio e stanco e tutti i giorni mangiava un pastone dal profumo
buono, non sembrava una pappa per cani, dentro la Signora Mara e Maria Chiara, che
da grande voleva fare la veterinaria, ci mettevano un misto di verdure, riso e
ali di pollo, disossate, per non fargli andare gli ossicini di traverso. Ulisse
aveva un pelo corto e ispido color miele e delle orecchie morbide che gli
davano l’espressione mansueta. Ringhiava solo al postino, ma non faceva male a
una mosca, sì le piaceva Ulisse, le piaceva proprio…
Si aggiustò
meglio nella poltrona, il dolore era diventato un’ombra silenziosa e
inoffensiva, adesso mi alzo e mi rimetto
a letto, pensò, ma ho paura di svegliare tutti, forse è meglio se resto qui,
questa vecchia poltrona di pelle è morbida, chissà, forse posso fare un
riposino, domani Guido mi porta alla miniera abbandonata, ha detto che mi deve
far vedere delle pepite d’oro, una volta di oro ce n’era tantissimo poi la vena
si è esaurita, non sono mai stata in una miniera, è nella pancia della terra,
deve essere umida e buia, ma non ho paura, Guido mi prenderà per mano e
giocheremo al vero nascondino, che bello, non voglio che finiscano le vacanze,
questa casa mi piace, siamo in tanti e tutti fanno sempre qualcosa, chi canta,
chi cucina, chi gioca a scacchi, chi cuce, domani mi metto i pantaloni, quelli
scuri, così se li sporco non si vede, domani voglio rivedere i gattini, chissà
se la mamma me ne fa portare uno a casa, no, già lo so, è meglio se non glielo
chiedo, domani se mi passa questo mal di denti mi voglio proprio divertire…
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