Succede, dopo trentacinque anni,
di risentire quella poesia, che nel frattempo è diventata famosa, come il suo autore. 1981: un lungo viaggio durato un anno e mezzo fra America
Centrale e Perù. Un viaggio che non potrò mai dimenticare perché quando sono
tornata non ero più la stessa. I primi due mesi li abbiamo trascorsi in Messico. E venti
giorni a Oaxaca, una bella città coloniale a 1500 metri di altezza, con un
clima mite, ventilato e asciutto. Stavo imparando la lingua e tutti i giorni leggevo nella piazza principale,
seduta a un tavolino del bar, un quotidiano che si chiamava “uno mas uno”. A
pranzo andavamo, io e il mio compagno, a
mangiare un ottimo filetto alla tampiquena con guacamole, una gustosa salsa di
avocado. La vita scorreva serena. Il nostro albergo si chiamava Hotel
Principal. Era di stile coloniale, con le stanze che davano su un grande patio.
I vicini di stanza erano un padre e una figlia italiani. Lui faceva il pittore
e si era trasferito a vivere in Messico. la figlia aveva 18 anni ed era andata
ad assisterlo perchè era stato morso da un cane e la ferita non si rimarginava.
Lei si chiamava Olivia, era piccola e scura di carnagione e il primo giorno,
visto che parlava un castigliano fluente, l’avevo scambiata per una messicana.
Nell’altra stanza c’era lui, “el poeta”, un piccolo indio zapoteco, dalla
faccia incredibilmente rugosa, che subito fece amicizia con il mio compagno. La
sera se ne stavano nel patio a bere una birra dietro l’altra, mentre io
chiacchieravo con Olivia, che stava imparando a tessere della lana
bianca con un rudimentale telaio che teneva con i piedi, sperando di fare dei
tappeti che poi avrebbe venduto ai gringos. Il cielo al tramonto diventava di
un rosso porpora che poi sfumava nel viola. Erano momenti magici che meritavano
il silenzio. Infatti per qualche minuto nel patio tutti tacevano, per non
disturbare quello spettacolo di assoluta perfezione, per poi riprendere a
parlare quando il cielo diventava blu cobalto.
Una sera arrivò una turista
francese che abitava a N.York e aveva un negozio d’arte. Il giorno dopo andammo
tutti in un villaggio dalle strade di terra battuta a trovare Teodora, un’anziana india
che ancora faceva delle ceramiche di terracotta nera secondo un’antica tradizione
azteca. Arlette, così si chiamava la francese, ne ordinò un grosso quantitativo, a un costo irrisorio, per poi rivendere i vari pezzi nel suo elegante negozio a Manhattan a un
prezzo centuplicato. Al ritorno Dionisio, el poeta, ci invitò a bere qualcosa in
un locale che avevano aperto da poco e si chiamava “El sol y la luna”. Era una
serata tiepida. Nel giardino interno, profumato di fiori tropicali, avevano
sistemato dei tavoli e delle panche per noi che volevamo stare per conto nostro
all’aperto. Dionisio quella sera bevve parecchio e a un certo punto, come un
saltimbanco si mise in piedi su un tavolo e incominciò a declamare le sue
poesie. Mi ricordava il vecchio Ungaretti quando leggeva i brani dell’Odissea,
per la mimica e le innumerevoli rughe. Eppure Dionisio non era vecchio, avrà
avuto una quarantina d’anni, ma il suo volto, scolpito e intenso, sembrava il
tronco di una vecchia quercia. Io ancora non capivo tutte le parole, ricordo
solo che in quelle poesie, intense e sofferte, l’anima di Dionisio emergeva
luminosa e chiara e lui si trasfigurava, fin quasi a diventare bello. Fra tutte
le sue poesie, una mi aveva particolarmente colpita. Parlava della sua bambina,
nata da una relazione con una turista americana, che ora viveva con la madre
a Miami e lui poteva vedere solo una volta l’anno. Ricordavo più o meno il
senso. Diceva che tutti i giorni della settimana erano vuoti e senza senso
e solo uno risplendeva, perchè in quel giorno era nata lei. Ecco, in tutti
questi anni ho pensato spesso a quei giorni, a Olivia ( a mia figlia ho dato il
suo nome) e a "el poeta". Le parole di quella poesia in qualche modo avevano
lasciato in me una traccia luminosa. Finché oggi l’ho trovata su internet, anzi
ho trovato proprio lui “el poeta” che nel frattempo è diventato famoso, mentre
declama proprio quella poesia. Lui è vecchio vecchio e la sua voce trema. La
sua poesia, quella poesia è intitolata “ Viernes”. E lui, el poeta è Dionisio
Hernandez Ramos. Ascoltandolo non ho potuto fare a meno di commuovermi e di pensare che certi incontri sono veramente
meravigliosi, se non li lasciamo andare. Dionisio se n'è andato il 3 agosto di quest'anno. Anche questo l'ho scoperto oggi. Ecco "Viernes"
Me gustan los viernes
porque la vida de la semana
agoniza en esas horas
y expira con frenesí
de poseso alcohólico
Y también
porque naciste tú
en viernes
sin sol
con cielo gris
triste
No me gustan los sábados
domingos lunes martes
miércoles o jueves
porque nada pasa
ni naciste tú
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