Era successo di nuovo. La
mamma era scivolata a terra, senza un lamento. Era pallida come uno straccio e
aveva gli occhi chiusi. La bambina le mise un cuscino sotto la testa, poi salì
su una sedia e prese dalla credenza la bottiglietta dell’aceto. Ormai c’era
abituata: gliela faceva annusare e lei incominciava a fare quelle smorfie
strane, prima di riaprire gli occhi e abbozzare un sorriso stanco. “Sta’
tranquilla, è passata…ora sto meglio”. La mamma si alzò appoggiandosi al tavolo
e riprese a sfaccendare.
Il papà era appena
rientrato ma sarebbe uscito appena finito di cenare, come tutte le sere. Andava
a giocare a biliardo con gli amici in quel vecchio bar in centro e tornava a
notte tarda quando lei già dormiva. Ogni volta la stessa scena: lui si infilava
la giacca e la mamma si metteva il grembiule
prima di iniziare a lavare i piatti con affanno, la testa china e gli
occhi lucidi.
“Non faccio tardi, ma non
aspettarmi sveglia.” E si metteva a cercare le chiavi della macchina.
Era una specie di
rituale. Ogni volta lei cambiava posto, era diventata brava e il papà ci
metteva un quarto d’ora prima di trovarle. Non si spazientiva quasi mai, quello
era il piccolo pegno che doveva pagare per godersi una serata con gli amici, a
fumare liberamente, senza dover andare sul balcone al freddo, e a esibirsi nei
suoi virtuosismi con la stecca. La bambina stavolta le aveva nascoste sotto un
cuscino del divano rosso.
“Domani bisogna pagare la
rata della macchina. Dove li prendiamo i soldi?” la mamma aveva la voce fioca.
“Sta’ tranquilla, stasera
vinco il torneo e ti porto a casa una bella sommetta.” Ecco aveva trovato le
chiavi. Sorrise alla bambina e uscì fischiettando. Era allegro, lui era sempre
allegro.
Alla televisione non c’era niente di interessante. La bambina
si lavò i denti e si mise il pigiama. Provò a giocare un po’ con le bambole, ma
non ne aveva molta voglia. Le pettinò e le truccò con dei vecchi rossetti: un
po’ di rosso sulle guance e sulle labbra, seguendo bene il contorno, con
precisione, come aveva visto fare alla nonna che però aveva le labbra sottili e
usciva sempre fuori dai bordi. “Le persone con le labbra sottili sono avare”
aveva detto una volta il papà. Chissà, forse l’aveva detto perché la nonna non
gli aveva voluto comprare quella nuova macchina blu e lui aveva dovuto firmare
delle cambiali che erano dei grandi fogli con dei numeri sopra. Per questo la
mamma ogni fine del mese era così triste e agitata. Perché scadeva la cambiale.
Cam-bia-le. Scompose in sillabe quella parola. Che cosa cambia poi? Che uno è
più triste. E se si spostava l’accento diventava un ordine: càmbiale. Secco,
deciso. Le parole la incantavano. Da quando aveva imparato a leggere, il mondo
era diventato più grande e più bello e lei stava scoprendo un sacco di cose. Le
piacevano soprattutto le parole sdrucciole: libero, umido, pallido, unico…
Gliele aveva insegnate da poco la maestra Michela, quella giovane che sostituiva la
maestra Liliana che aspettava un bambino e aveva una grossa pancia tonda. Forse
dentro ce n’erano due di bambini, addirittura tre, perché quella pancia era
veramente enorme. Ma come può un bambino stare comodo così arrotolato? Non avrà
freddo? E paura del buio? Lei ancora aveva paura del buio, anche se era molto
coraggiosa e da un anno dormiva da sola nella cameretta che le avevano fatto
trovare al ritorno dalle vacanze in montagna con i nonni. Prima di andare a
dormire controllava per almeno quattro o cinque volte che la porta della camera
dei genitori fosse aperta, poi si addormentava, abbracciata al suo peluche
preferito (un orso tutto spelacchiato che si chiamava Ugo ) e a Regina, la bambola africana. Ma a volte si
svegliava nel cuore della notte e al buio, scalza e in punta di piedi si
avvicinava alla stanza dei suoi. Solo una volta
aveva trovato la porta chiusa.
Loro ridevano piano e sussurravano. La mamma sembrava contenta. Poi era sceso
il silenzio e il papà aveva emesso una specie di lungo lamento, che un po’
l’aveva spaventata. Di corsa era ritornata nel suo letto, ma da quella notte i
controlli erano aumentati e questo la faceva addormentare sempre più tardi,
Qualche volta si assopiva in classe con la testa sul banco e la maestra giovane
la svegliava con una carezza e poi le regalava una caramella. Chissà perché era
così gentile con lei, a volte si vergognava un po’ di quelle attenzioni, si era
accorta che i suoi compagni di classe le erano diventati un po’ ostili e
durante la ricreazione non la invitavano più a giocare. O forse era lei che
preferiva starsene in disparte a mangiare la merenda… non ci capiva più niente,
si sentiva un po’ triste e molto stanca. La mamma aveva preso a darle uno
sciroppo molto amaro, a base di pesce, non sapeva quale, ma le faceva schifo e
ogni mattina erano pianti. Dentro c’erano delle vitamine che fanno bene alle
ossa e alla vista, ma non potevano inventarsi qualcosa di più dolce, al sapore
di fragola o mirtillo, come lo sciroppo per la tosse?
Il papà rientrò molto
tardi. Aveva aspettato che lui tornasse per poter fare i primi controlli. Sentì
per molte volte l’ascensore fermarsi al piano, ma non era mai lui. Aveva sonno
ma per non addormentarsi si mise a leggere “Topolino”. Ecco finalmente il
rumore delle chiavi che giravano nella serratura. Spense la luce. Il papà era
molto silenzioso. Appena entrava si levava le scarpe, poi andava in bagno e dopo
poco entrava in camera da letto. Sempre così, ogni volta. Quella sera invece
andò subito in camera. Sentì che rideva contento e che subito dopo la mamma
batteva le mani. Anche lei sembrava contenta. Si misero a parlare a bassa voce
e lei non riusciva a capire niente, ecco
adesso il papà tirava lo sciacquone e la mamma andava in cucina a prendere un
bicchiere d’acqua, il giorno dopo era domenica, che bello, avrebbe potuto
dormire di più, l’ascensore di nuovo, si vede che i vicini avevano dato una
festa, questa volta scendeva, lei non aveva paura dell’ascensore, a volte lo
prendeva da sola quando tornava da scuola, mica poteva fare sei piani a piedi,
ecco adesso era calato il silenzio, i suoi genitori avevano spento l’abat jour,
si vedeva solo la luce fredda dell’insegna del bar che si accendeva e spegneva,
avrebbe dovuto fare il primo controllo, no ancora un momento, stava così bene
al caldo, si era rannicchiata su un fianco, la guancia della bambola aveva un
buon odore dolce, chissà perché le bambole profumano, i capelli le facevano solletico, fece una smorfia, devo
alzarmi, pensò, adesso mi alzo, ancora un momento, il silenzio era perfetto,
sentì che il papà russava, quindi la porta era aperta, chissà forse poteva rimandare
il controllo, magari all’alba, con quella luce livida che faceva sembrare tutto
bianco e nero con un po’ di grigio, intanto si sarebbe riposata un po’, si
sentiva al sicuro, tutti erano a casa, tutto era al suo posto, l’ascensore era
fermo al piano, lei era al calduccio e domani è domenica, pensò, la mamma non
sviene, non è mai successo di domenica, domani facciamo le frittelle….