Cara Mamma, vorrei tanto che tu
leggessi questa lettera, ma so che non sarà così. La leggeranno altre persone, persone
sconosciute e lontane, e lo faranno con delicatezza e tatto, senza giudicare.
Sono anni che penso con terrore al momento in cui te ne andrai. Sempre stata
cagionevole, tu. E arrabbiata. E’ come se con ogni tua parola e gesto volessi
farla pagare al mondo. Per quello che non hai potuto fare. Per quello che hai
fatto e non volevi. Per quello che ti hanno tolto. Per la sfortuna. Per le
disgrazie. La tua vita, raccontata da te, con quella veemenza che ritrovi
quando parli del passato, sottolineando gli avvenimenti con una drammaticità degna
di Eleonora Duse, è un susseguirsi di avventure, colpi di scena, scherzi del
destino, occasioni mancate. Come tutte le vite, credo. Ma tu sei convinta di essere stata l’unica a soffrire, gli altri
hanno avuto sicuramente più sicurezze, più stabilità, più consolazioni. E la
tua voce, le tue mani che gesticolano nervose, i tuoi occhi vivi e accesi,
quando parli così, seppure ferita a morte, addolorata e delusa, lasciano
trapelare la tua grande forza e la voglia, tutto sommato, di vivere ancora a
lungo. Per carità, mi rispondi quando
ti dico che camperai sicuramente fino a
cent’anni, questa non è vita, mi dispiace
deluderti, ma non ci sto, non
sembri però molto convinta, anche se cerchi come al solito di fare la prima
attrice, in un teatro dalle tende di nylon e chiazze di umidità alle pareti, ma
pur sempre un teatro. Così sei tu. Non mi hai mai risparmiato le tue emozioni
che, quando ero piccola, mi travolgevano, lasciandomi dolorante e impaurita. E dopo,
durante l’adolescenza, mi procuravano attacchi di panico e improvvisi rossori,
che mi facevano desiderare di diventare invisibile e muta. E muta sono stata per anni, tu parlavi,
parlavi, ancora adesso, quando provo a dire qualcosa mi parli addosso oppure
semplicemente mi giri le spalle e ti metti a fare qualcos’altro. Ma non ci
resto male più di tanto. Ti vengo dietro e ti accarezzo le spalle magre e curve (pensare che camminavi
dritta come un fuso, adesso ti sei così rimpicciolita!). Quello che provo ora
per te è amore puro, senza incrostazioni di rancori o di rimpianti. Amore che
non chiede niente. Tenerezza. Mi basta sapere che ci sei. Anche se non posso
venire a trovarti per più di mezz’ora alla volta (hai i tuoi ritmi, scanditi da
una disciplina sempre più ferrea, ceni alle 7, poi ti prepari per la notte e
dopo BLOB ti guardi “Un posto al sole”). Se mi azzardo a venire in quell’ orario,
gentilmente mi rispedisci a casa mia. Sono
sempre sola, dici, non mi puoi
privare degli unici momenti di svago, facendomi intendere che di quello
svago io non faccio parte. E sono finiti i pranzi della domenica da te. Non ce
la fai, dici, a cucinare per 3 persone. Non importa, va bene così, niente più
spezzatino e involtini al sugo, niente più risotti e minestroni. Se capito per
caso all’ora di pranzo, ti trovo seduta al tavolo, con le tue mini porzioni
delle cose buone che ancora ti cucini, in pentolini sempre più piccoli, come
quelli delle bambole. Pazienza. Allora ogni tanto ti porto io qualcosa, un
piatto di lasagne (ci mangi per tre volte!), uno sformato di verdure, una fetta
di torta, e quando ti passo il contenitore attraverso la finestra ti brillano
gli occhi, non dovevi disturbarti, mi
dici, ma si vede che sei contenta. A volte, quando non rispondi al cellulare, ho
paura. Forse sei caduta o ti sei sentita male. Forse sei morta. Ma a pensarci
bene questo pensiero l’avevo anche da bambina, quando all’improvviso svenivi e io
ti mettevo un cuscino sotto la testa e ti facevo annusare l’aceto. Stavo con il
fiato sospeso fino a quando non riaprivi gli occhi, le piccole mani a farti
carezze sulla fronte, protesa a vedere se ancora respiravi. E quando finalmente
rinvenivi, pallida, con un sorriso stanco, io provavo una felicità acuta e
traboccante. Eri viva, c’eri ancora, lì per me, non te n’eri andata. E provo la
stessa gioia, forse ancora più intensa, quando
mi rispondi, con quel leggero affanno che non è riuscito a cambiare la tua voce
giovane, da soprano. E’ vero, in questo ti do ragione, hai una voce bellissima,
avresti dovuto fare la cantante. Tu mi abbracci di rado adesso, allora ti
abbraccio io e chiudo gli occhi. Ti sento un po’ rigida, è per via dei dolori, dici, ma so che se ti abbandonassi a
quell’abbraccio dovresti ammettere a te stessa che hai paura. In questo momento
un ragazzo Rom sta suonando alla fisarmonica “Besame mucho”. Ballando con
quella musica tu e papà vi siete innamorati, e il vostro amore bello e complicato
è durato 18 anni, fino a quella maledetta sera dell’incidente. Da allora ti sei
ricordata che esistevo anch’io. Ma era troppo tardi. Un anno dopo me ne sono andata
a vivere da sola. Adesso non so cosa darei per dormire nel lettone con te. Te
l’ho proposto una volta, di rimanere per la notte. Perché? mi hai detto Non ce
n’è ancora bisogno… più in là forse.
Più in là. E mi hai girato le spalle
fingendo di trafficare con qualcosa.
Ti voglio bene, mamma, so che la sai, ma te lo devo dire.
Tua
figlia