Arrivo alla stazione trafelata, lo
zaino rosso sulle spalle e una busta con la borraccia e i panini. Il treno
parte alle undici. Mancano pochi minuti. L’appuntamento è al binario 7. Da
lontano intravedo la testa spettinata di Lucia. Mi sembra ancora più carica di
me. Come al solito è vestita di nero. Non è sola.
“Ti presento Antonio, mio fratello”.
“E’ stato carino ad accompagnarti!”
“Lui viene con noi in Portogallo, abbiamo deciso tutto stanotte, non ti
ho avvertita per non svegliarti. Va bene, no?”
Non so che dire, sono un po’ spiazzata, Lucia mi ha già parlato di questo
fratello di diciotto anni che ha dei problemi, non ho ben capito quali. Ma
adesso non posso certo dire niente e tanto meno oppormi alla sua presenza.
Sorrido: “Benvenuto Antonio, si parte!” Lui non mi risponde, si limita a
sistemarsi lo zaino sulla schiena e insieme saliamo sul treno. Abbiamo davanti a noi l’intero mese. Io ho appena terminato la sessione
estiva all’Università, sono riuscita a dare tre esami, sono soddisfatta. Ho
lavorato tutto l’inverno come baby sitter e dando ripetizioni di latino ho
messo qualche soldo da parte. Prima tappa sarà Barcellona. Poi andremo a Toledo
e Madrid. Da lì prenderemo il treno per Oporto. Poi scenderemo giù fino a
Lisbona. Con calma, assaporando il viaggio, le tappe, gli incontri. Da veri
viaggiatori. Antonio ha preso posto davanti a me. Lo guardo. Ha grandi occhi azzurri,
puri, i capelli biondi spettinati, una barba rada e lunga. Non è molto alto, ma
asciutto, agile, a proprio agio nel suo corpo. Sembra perso in pensieri solo
suoi, non parla, ogni tanto tira fuori una piccola armonica e si mette a
suonare una musica dolce, che mi rilassa. Sento all’improvviso tutta la
stanchezza di questi ultimi giorni, chiudo gli occhi e all’altezza di La Spezia
mi addormento. Quando mi sveglio siamo già alla frontiera con la Francia. E’ bello
sentirsi all’estero, è una sensazione di apertura, di curiosità che mi prende
fin da quando ero piccola ogni volta che supero un confine. Lucia parla poco.
Ogni tanto si rivolge al fratello come fosse un bambino. Non l’avevo mai vista
così protettiva, con nessuno. Antonio risponde a monosillabi. Vedo che ha le
mani sudice e le unghie lunghe. Prima non ci avevo fatto caso. Mangiamo i
panini. Gli offro una pesca, lui la morde avidamente, facendo sgocciolare il
succo sopra i pantaloni sui quali poi si pulisce le mani. Piccole gocce gli
brillano sui baffi, si pulisce con il dorso della mano e poi riprende a suonare
l’armonica. Lucia chiude gli occhi e si mette a dormire. Il treno si ferma
spesso. Il paesaggio è cambiato, è diventato più giallo. Grandi distese di
grano e basta, per chilometri e chilometri. All’imbrunire arriviamo al confine
con la Spagna. Sono emozionata. La dogana è fitta di uomini che parlano in
fretta, non capisco una sola parola, so solo che mi piace il suono di quella
lingua che ancora non conosco, è misteriosa e per questo mi incuriosisce e mi
affascina. E’ scesa la notte. L’aria è fresca, mi copro con il mio scialle nero.
Antonio dorme appoggiato sulla spalla di Lucia che ha gli occhi celesti
spalancati nella penombra. Mi addormento per alcune ore alla luce azzurrina
dello scompartimento. Sogno di rotolarmi nel grano, le spighe mi fanno
solletico, io rido, rido, come una bambina, la luce è limpida e calda, mi
sdraio e guardo il cielo che è di un blu smaltato con nuvole gonfie come di panna,
dalle forme più strane. Mi sveglio alla frenata improvvisa del treno. Siamo in una galleria:
puzza di fuliggine e di umidità. Guardo l’ora, sono le 5. Ho fame. Antonio
dorme con la bocca aperta. Lucia gli è scivolata con la testa sulle ginocchia.
Così rannicchiata sembra una bambina magra, molto magra.
Alle 8 arriviamo a Barcellona. Sono già andata in bagno a lavarmi alla
meglio, ho sgranocchiato i biscotti avanzati e qualche Ritz , ho ancora
granelli di sale sulle labbra. Ho voglia di un caffè. Lucia e Antonio fanno
fatica a svegliarsi, li scuoto dolcemente, Antonio mugugna qualcosa. Quei due,
così stropicciati, si rassomigliano ancora di più. E al mattino hanno gli occhi
più chiari, come pozze di acqua trasparente.
Deve essere bello avere un fratello.
La città è ventosa. Sulle Ramblas
ci fermiamo in un piccolo caffè a mangiare qualcosa. Poi cerchiamo una
pensione. Ne troviamo una in una stradina con i panni stesi da un lato
all’altro. Mi sembra di stare a Napoli. La mia stanza è buia e striminzita. E
senza finestre. Mi butto sul letto vestita e mi addormento. Antonio e Lucia
dormono in un grande letto matrimoniale nella stanza accanto che ha una
tappezzeria a fiori azzurri, forse dalie.In giro per la città, dopo esserci riposati e ripuliti, mi rendo conto
che non sarà un viaggio facile. Antonio continua a non parlare. Lucia è cupa,
non si entusiasma davanti a niente e forse le dà fastidio la mia allegria. Io
trovo tutto meraviglioso: le strade, le case con i cortili ombrosi e freschi,
il chiacchiericcio della gente, la statua di Colombo vicino al porto, immenso e
brulicante di vita, come tutti i porti, il gazpacho
freddo e la paella alla valenciana con il vino ghiacciato,
l’orto botanico dagli alberi altissimi, di tutte le specie. Lucia non vuole vedere
né chiese né musei. Io l’accontento. Li vedrò al ritorno, magari da sola.
Sono felice.
Sono in viaggio.
Lasciamo Barcellona. Toledo è un quadro dai colori accesi: giallo,
soprattutto, bianco accecante e blu di cielo.
Per le stradine ombrose dalle
case antiche incontriamo negozi che vendono oggetti in ferro battuto e spade
dalle lame luccicanti.
Alle finestre gerani e piante rampicanti. Nei cortili si intravedono palme flessuose. A Madrid non ci fermiamo. Prendiamo la metro per una stazione ultra-moderna che si chiama Chamartin. E saliamo sul treno per Oporto. A Jerez de la Frontera il treno fa una lunga sosta. I controllori parlano una lingua dal suono dolce, che sembra genovese. Quando arriviamo a Oporto è notte. Siamo stanchi, affamati e accaldati. E anche un po’ sporchi, soprattutto Antonio. La stazione è piccola, si chiama Campana. Dappertutto maioliche azzurre, arabescate, che danno un’idea di pulizia e frescura. Non c’è quasi nessuno in giro, la luce è fioca. Un signore che parla un misto di spagnolo e italiano si offre di accompagnarci in una specie di locanda. Bisogna attraversare un cortile sudicio con delle galline, e salire una scala a pioli. In pratica dovremmo dormire in un fienile riadattato, con un odore acre che sale dal basso, di letame. Ci guardiamo in faccia e in un attimo decidiamo di andarcene. Il signore ci urla dietro parole incomprensibili. Torniamo alla stazione. Un’impiegata dietro lo sportello ci fa un cenno sorridente. Parla francese. Dice che, se vogliamo, può ospitarci a casa sua, di lì a poco dovrà staccare dal servizio. Si chiama Erminda, ha più o meno la mia età, è carina e molto dolce. La sua casa è a due piani, rosa, in una stradina curva di villini con il giardino. E’ tutto lindo e ordinato. I suoi genitori sono in viaggio e lei è rimasta con Manoel, il suo fratellino di dodici anni. Ci mette a disposizione il salotto dove possiamo sistemarci con i sacchi a pelo sul parquet lucido di cera. Dopo la doccia mangiamo un’omelette con l’insalata e beviamo un vino bianco ghiacciato che poi, lo scopriremo dagli effetti, risulta essere di gradazione molto alta. La notte dormiamo come sassi. Il primo pensiero, quando mi sveglio è: “Sono in Portogallo.” Ed è un pensiero di allegria. Restiamo da Erminda tre giorni. Il tempo di visitare Oporto e incomincio a capire il concetto di “saudade”. Forse è la nebbia che si alza la mattina a dare questa sensazione, o forse sono le facce della gente, serie, e il chiacchiericcio per le strade che non è allegro come quello della Spagna, un po’ invadente e rumoroso, ma ha un qualcosa di rassegnato e triste, come il fado che si sente in sottofondo. Anche il cibo non ha i colori della Spagna, vivaci e accattivanti e la cucina è semplice e povera. Mangiamo molte sardine arrostite sulla brace e pollo arrosto. Basta. Solo i dolci al cocco che compriamo nelle pasticcerie profumate che incontriamo a ogni angolo di strada, ci fanno tornare il buon umore. Tappa successiva Esposende, un paesino di pescatori sulla costa in direzione di Lisbona. Erminda ci accompagna al pullman e ci abbracciamo con gli occhi lucidi. Per ringraziarla le regaliamo un tronchetto della felicità. Esposende è un villaggio di piccole case di pietra. L’ostello della gioventù è in un’ala della scuola elementare, con disegni colorati appesi alle pareti. Siamo gli unici ospiti. Lucia ed io dormiamo in una camerata con i letti a castello. Antonio si sistema in una stanza con due brandine da campo. Sembra di stare nella brughiera. Ci sono molti prati tutt’intorno, la nebbia e una luce sghemba e grigia. In lontananza si sente il ruggito del mare. Fino a mezzogiorno fa fresco, poi si alza il sole, ma anche un vento forte, fastidioso, non sembra certo di essere in agosto. A Lucia piace questo clima, io preferisco il caldo. Antonio non si pronuncia, si limita a starsene seduto sul prato a suonare l’armonica e la sua musica è sempre più triste, quasi un pianto. Nei giorni successivi comincio a sentirmi inquieta. Antonio è muto, Lucia insofferente, spigolosa. Non riusciamo a trovarci d’accordo su niente. Io amo il mare e, anche se c’è vento, mi piace stare sdraiata al sole fra le dune. Lei ha la pelle molto chiara e si prende subito un colpo di sole, addirittura le si gonfiano le caviglie come due palloncini e le viene la febbre. Vedo nello sguardo di Antonio un’espressione di paura. La prossima tappa, per venire incontro a Lucia, sarà in montagna, in un posto chiamato Penhas de Saude.
Alle finestre gerani e piante rampicanti. Nei cortili si intravedono palme flessuose. A Madrid non ci fermiamo. Prendiamo la metro per una stazione ultra-moderna che si chiama Chamartin. E saliamo sul treno per Oporto. A Jerez de la Frontera il treno fa una lunga sosta. I controllori parlano una lingua dal suono dolce, che sembra genovese. Quando arriviamo a Oporto è notte. Siamo stanchi, affamati e accaldati. E anche un po’ sporchi, soprattutto Antonio. La stazione è piccola, si chiama Campana. Dappertutto maioliche azzurre, arabescate, che danno un’idea di pulizia e frescura. Non c’è quasi nessuno in giro, la luce è fioca. Un signore che parla un misto di spagnolo e italiano si offre di accompagnarci in una specie di locanda. Bisogna attraversare un cortile sudicio con delle galline, e salire una scala a pioli. In pratica dovremmo dormire in un fienile riadattato, con un odore acre che sale dal basso, di letame. Ci guardiamo in faccia e in un attimo decidiamo di andarcene. Il signore ci urla dietro parole incomprensibili. Torniamo alla stazione. Un’impiegata dietro lo sportello ci fa un cenno sorridente. Parla francese. Dice che, se vogliamo, può ospitarci a casa sua, di lì a poco dovrà staccare dal servizio. Si chiama Erminda, ha più o meno la mia età, è carina e molto dolce. La sua casa è a due piani, rosa, in una stradina curva di villini con il giardino. E’ tutto lindo e ordinato. I suoi genitori sono in viaggio e lei è rimasta con Manoel, il suo fratellino di dodici anni. Ci mette a disposizione il salotto dove possiamo sistemarci con i sacchi a pelo sul parquet lucido di cera. Dopo la doccia mangiamo un’omelette con l’insalata e beviamo un vino bianco ghiacciato che poi, lo scopriremo dagli effetti, risulta essere di gradazione molto alta. La notte dormiamo come sassi. Il primo pensiero, quando mi sveglio è: “Sono in Portogallo.” Ed è un pensiero di allegria. Restiamo da Erminda tre giorni. Il tempo di visitare Oporto e incomincio a capire il concetto di “saudade”. Forse è la nebbia che si alza la mattina a dare questa sensazione, o forse sono le facce della gente, serie, e il chiacchiericcio per le strade che non è allegro come quello della Spagna, un po’ invadente e rumoroso, ma ha un qualcosa di rassegnato e triste, come il fado che si sente in sottofondo. Anche il cibo non ha i colori della Spagna, vivaci e accattivanti e la cucina è semplice e povera. Mangiamo molte sardine arrostite sulla brace e pollo arrosto. Basta. Solo i dolci al cocco che compriamo nelle pasticcerie profumate che incontriamo a ogni angolo di strada, ci fanno tornare il buon umore. Tappa successiva Esposende, un paesino di pescatori sulla costa in direzione di Lisbona. Erminda ci accompagna al pullman e ci abbracciamo con gli occhi lucidi. Per ringraziarla le regaliamo un tronchetto della felicità. Esposende è un villaggio di piccole case di pietra. L’ostello della gioventù è in un’ala della scuola elementare, con disegni colorati appesi alle pareti. Siamo gli unici ospiti. Lucia ed io dormiamo in una camerata con i letti a castello. Antonio si sistema in una stanza con due brandine da campo. Sembra di stare nella brughiera. Ci sono molti prati tutt’intorno, la nebbia e una luce sghemba e grigia. In lontananza si sente il ruggito del mare. Fino a mezzogiorno fa fresco, poi si alza il sole, ma anche un vento forte, fastidioso, non sembra certo di essere in agosto. A Lucia piace questo clima, io preferisco il caldo. Antonio non si pronuncia, si limita a starsene seduto sul prato a suonare l’armonica e la sua musica è sempre più triste, quasi un pianto. Nei giorni successivi comincio a sentirmi inquieta. Antonio è muto, Lucia insofferente, spigolosa. Non riusciamo a trovarci d’accordo su niente. Io amo il mare e, anche se c’è vento, mi piace stare sdraiata al sole fra le dune. Lei ha la pelle molto chiara e si prende subito un colpo di sole, addirittura le si gonfiano le caviglie come due palloncini e le viene la febbre. Vedo nello sguardo di Antonio un’espressione di paura. La prossima tappa, per venire incontro a Lucia, sarà in montagna, in un posto chiamato Penhas de Saude.
Lascio a malincuore il mare e la camerata con i disegni dei bambini e le
grandi lettere dell’alfabeto appese alle pareti. In pullman mi viene la nausea per le curve. Si sale, si sale, non si
arriva mai. Dappertutto abeti e nebbia. Più in alto si vedono chiazze di neve.
Ho freddo, sono stanca, non mi piace patire il freddo d’estate, non mi sembra
naturale. Invece Lucia si è ringalluzzita e ha messo su due belle gote rosse.
Antonio dorme per tutto il viaggio. Porta gli stessi pantaloni da quando siamo
partiti e le sue unghie sono sempre più lunghe. Incomincio a provare un po’ di
disagio. Lucia non sembra invece farci caso.
L’ostello è un enorme edificio semicircolare. D’inverno funziona come
albergo per gli sciatori. Adesso non c’è nessuno, a parte la coppia di gestori.
Sono gentili, ospitali, ci preparano subito un piatto di spaghetti al pomodoro,
e devo dire che sono proprio buoni, neanche troppo scotti. La sera usciamo
per fare due passi, ma l’aria è fredda e
umida e rientriamo subito. Ci mettiamo a leggere vicino al camino. Sembra
Dicembre. Questo viaggio sta prendendo una piega che non mi piace. Mi sento
sola e ho voglia di caldo e di allegria.
Dico a Lucia che vorrei alternare, se possibile, mare e montagna, per
accontentare un po’ tutti. Lei me lo fa pesare. Odia il caldo e la confusione.
Delle chiese e dei musei non gliene importa un bel niente. Io le dico che bisognerebbe
cercare di venirsi incontro, chiedo anche il parere di Antonio. Lei mi dice
“Lascialo stare, lui fa quello che faccio io”. Antonio sembra svegliarsi dal
suo torpore e bisbiglia: “A me va bene qualsiasi cosa, decidete voi”. Cala un
silenzio sempre più carico di tensione.
Dopo due giorni
lasciamo la montagna.
A Braga, bellissima città d’arte, mi sembra che le cose vadano un po’
meglio e mi sento sollevata.
Ma, all’improvviso, dopo una visita a una grande chiesa di pietra bianca, Lucia mi dice: “Domani me ne torno a Firenze”. E si rivolge ad Antonio: “ Tu che fai? Vieni con me?” Lui risponde, sicuro, quasi spavaldo: “Io resto”. Mi sento ghiacciare il sangue nelle vene. Provo a dire che non me la sento di fare il viaggio da sola con Antonio, quasi non ci conosciamo, e che se c’è stato qualche malinteso si può sempre rimediare, il bello del viaggio sono proprio gli imprevisti, gli aggiustamenti, no? E “dai Lucia rimani….” Niente da fare. Lucia prende l’espresso per Oporto.
Ma, all’improvviso, dopo una visita a una grande chiesa di pietra bianca, Lucia mi dice: “Domani me ne torno a Firenze”. E si rivolge ad Antonio: “ Tu che fai? Vieni con me?” Lui risponde, sicuro, quasi spavaldo: “Io resto”. Mi sento ghiacciare il sangue nelle vene. Provo a dire che non me la sento di fare il viaggio da sola con Antonio, quasi non ci conosciamo, e che se c’è stato qualche malinteso si può sempre rimediare, il bello del viaggio sono proprio gli imprevisti, gli aggiustamenti, no? E “dai Lucia rimani….” Niente da fare. Lucia prende l’espresso per Oporto.
E così inizia il
mio viaggio con Antonio.
Nei giorni successivi faccio una scorpacciata di chiese e di musei.
Antonio mi segue mansueto, come un cagnolino, sembriamo una coppia piuttosto
male assortita, per età e modo di vestire, ma non mi interessa. Finalmente mi
sto gustando il Portogallo e tutto sommato non essere sola è un vantaggio,
anche se il mio compagno è alquanto bizzarro. Da quando Lucia è partita è
diventato più loquace. Ogni tanto si ferma a guardare un cortile, una statua,
uno scorcio di paesaggio e dice ispirato: “Che bello!”. Un giorno mentre ce ne stiamo a prendere il fresco in un giardino gli
chiedo di sua madre, morta da tanti anni. E Antonio incomincia a parlare: era
bionda e pallida e suonava il pianoforte. Lui era il suo figlio preferito, il
più piccolo, il più coccolato, se lo portava dappertutto. Profumava di bosco
sua madre e quando lui suona l’armonica, nei momenti più intensi, è come se lo
risentisse quell’odore, per un attimo, insieme alla nostalgia e alla tristezza.
Un giorno lei è partita. E’ andata in un ospedale in montagna, un sanatorio,
soffriva di tubercolosi, per questo era così pallida. E non è più tornata. Lui
aveva 5 anni. E da quel momento non c’è stata più allegria, né risate, né
tenerezza nella sua vita. Suo padre è diventato sempre più rigido e cupo, non è
più riuscito ad occuparsi dei figli e li ha mandati in collegio fino a 16 anni.
Ecco. Tutto qui. Lui avrebbe voluto iscriversi al conservatorio, invece ha
studiato come elettrotecnico e tutto sommato gli piace armeggiare con valvole e
transistor, ma è altro quello che cerca, ancora non sa bene cosa, ma è altro. E
la musica gli è sempre rimasta nel cuore.
E’ strano
sentirlo parlare. Una sorpresa. Mi sento più leggera. E provo una grande
tenerezza. Allora gli racconto di mio padre, dell’incidente d’auto e di quanto
mi manchi.
Due orfani in
viaggio. A leccarsi le ferite, a consolarsi. Con il dolore che a volte punge,
come una spina.
Ogni sera facciamo programmi per il giorno dopo. A lui piace camminare,
soprattutto in salita. Si arrampica come un mulo e io lo seguo, ogni tanto si
ferma e mi aspetta e nei punti più ripidi mi prende per mano. Troviamo un
bellissimo ostello a pochi chilometri da Lisbona. Si affaccia su un fiordo, è
di legno verde, sembra di stare in Norvegia. Le camerate sono miste, c’è una
bella atmosfera, gli altri ospiti sono tedeschi e spesso mangiamo tutti insieme
seduti al grande tavolo di legno, guardando il mare. Un pomeriggio propongo a Antonio di fargli lo shampoo. C’è una pompa
all’aperto, l’acqua è tiepida per il sole, lo spruzzo e lo insapono, lui mi
lascia fare e ride come un bambino, non l’avevo mai visto ridere, ha i denti
radi ingialliti di fumo, gli metto il balsamo e lo pettino. Poi gli taglio le
unghie. Non mi ero mai presa cura così di nessuno, mi piace, mi fa sentire una
specie di calore e di complicità fraterna che non avevo mai provato prima. Una sera i ragazzi tedeschi si mettono a cantare. E Antonio li accompagna
con l’armonica. La sua musica per la prima volta è allegra, briosa, ci mettiamo
a ballare e lui ha la faccia contenta.
Lisbona è bellissima.
Ce la giriamo tutta in lungo e in largo, il castello, il centro storico chiamato l’Alfama, la lunga spiaggia di Caparica con la statua del Cristo sull’Oceano, la Torre di Belèm, le dune di sabbia setosa, finalmente la luce e il calore. La sera mangiamo in ristorantini tipici, sempre sardine e pollo arrosto, ormai ci siamo abituati, e ogni giorno di più, un tassello alla volta, viene fuori la vita di Antonio. Ha fatto uso di droghe, non solo leggere, poi ha incominciato a bere, infine ha fatto il barbone, quasi avesse sette vite, come i gatti. Da alcuni mesi vive di nuovo con il padre e l’altra sorella che è molto depressa, ha tentato il suicidio un paio di volte. Questo è il suo primo vero viaggio e ha capito che vuole riprendere a studiare la musica. Io l’ascolto attenta, rispettosa, mi rendo conto di quanto sia fragile e sensibile e di quanta sofferenza abbia attraversato. E lui mi è grato, lo vedo da come mi tratta, da come mi parla, con voce gentile e pacata. Si fida di me e anch’io voglio avere fiducia in lui, nelle sue risorse. Facciamo amicizia con una coppia di romani. Sono simpatici, alla mano. La ragazza, che si chiama Ester, una sera mi prende da parte e mi chiede da quanto tempo stiamo insieme io e Antonio. Scoppio a ridere e le rispondo che ci conosciamo da meno di un mese e siamo diventati compagni di viaggio così, per caso. Lei mi guarda con la faccia stupita, credo che non riesca a capire. Ma come faccio a spiegarle che strano rapporto è mai il nostro? Una sera colgo uno sguardo di Antonio su un giovane cameriere del ristorante. E’ uno sguardo intenso, bramoso, che non gli avevo mai visto prima. E allora capisco un’altra cosa di lui.
Ce la giriamo tutta in lungo e in largo, il castello, il centro storico chiamato l’Alfama, la lunga spiaggia di Caparica con la statua del Cristo sull’Oceano, la Torre di Belèm, le dune di sabbia setosa, finalmente la luce e il calore. La sera mangiamo in ristorantini tipici, sempre sardine e pollo arrosto, ormai ci siamo abituati, e ogni giorno di più, un tassello alla volta, viene fuori la vita di Antonio. Ha fatto uso di droghe, non solo leggere, poi ha incominciato a bere, infine ha fatto il barbone, quasi avesse sette vite, come i gatti. Da alcuni mesi vive di nuovo con il padre e l’altra sorella che è molto depressa, ha tentato il suicidio un paio di volte. Questo è il suo primo vero viaggio e ha capito che vuole riprendere a studiare la musica. Io l’ascolto attenta, rispettosa, mi rendo conto di quanto sia fragile e sensibile e di quanta sofferenza abbia attraversato. E lui mi è grato, lo vedo da come mi tratta, da come mi parla, con voce gentile e pacata. Si fida di me e anch’io voglio avere fiducia in lui, nelle sue risorse. Facciamo amicizia con una coppia di romani. Sono simpatici, alla mano. La ragazza, che si chiama Ester, una sera mi prende da parte e mi chiede da quanto tempo stiamo insieme io e Antonio. Scoppio a ridere e le rispondo che ci conosciamo da meno di un mese e siamo diventati compagni di viaggio così, per caso. Lei mi guarda con la faccia stupita, credo che non riesca a capire. Ma come faccio a spiegarle che strano rapporto è mai il nostro? Una sera colgo uno sguardo di Antonio su un giovane cameriere del ristorante. E’ uno sguardo intenso, bramoso, che non gli avevo mai visto prima. E allora capisco un’altra cosa di lui.
Mancano pochi giorni al rientro.
Dobbiamo tornare a Barcellona a prendere il treno per Firenze. Il pullman
arriva in ritardo, abbiamo i minuti contati per raggiungere a piedi la
stazione. Cominciamo a correre. Antonio mi prende per mano e corriamo, corriamo
nel vento, ridendo come due bambini, il cuore in gola, i piedi che sfiorano
appena il selciato, leggeri, liberi, con tutta la vita davanti (il dolore
l’abbiamo lasciato alle spalle), luminosa e bella come questo viaggio.
Ad arrivare ci mettiamo 36 ore per via di uno sciopero delle ferrovie
francesi. Ci dividiamo l’acqua, la frutta e qualche cracker. Per tutto il tempo
quasi non parliamo. Lui prende a suonare l’armonica solo una volta durante una
lunga sosta. Ed è una musica triste, struggente, quasi un addio.
A Firenze ci
salutiamo. Siamo stanchi, accaldati e sudati.
Prima di
staccarmi da Antonio che mi tiene stretta stretta nel nostro unico abbraccio,
io sento, acuto, penetrante, un profumo di bosco.
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