Di quegli anni ricordo la fretta,
di vivere, conoscere, sperimentare, in una frenesia di corpo e mente, mai stati
così uniti.
Nell’agosto del ’70 la morte di
mio padre in un incidente d’auto, ha posto fine alla mia adolescenza dando
l’avvio, con uno scossone imprevisto e terribile, alla mia giovinezza. Avevo 18
anni.
Quello stesso anno è arrivato nel
nostro Liceo un nuovo insegnante di lettere. Era giovane, anche se aveva i
capelli già brizzolati, appassionato e di sinistra e in pochi mesi ha raso al
suolo tutte le mie certezze. I miei compagni lo guardavano estasiati, pendevano
tutti dalle sue labbra, invece io non ero ancora pronta ai suoi fiumi di
parole, ai cineforum sui film di Eisenstein, agli spettacoli teatrali all’Eliseo,
alle pagine e pagine di appunti che ci dettava a ritmo serrato, non ero pronta
alla veemenza e alla passione con le quali quasi ci costringeva a crescere, a
ragionare con la nostra testa, a scrollarci di dosso modelli superati e
obsoleti, a vivere. Ancora conservo i fogli protocollo con i miei temi, che lui
regolarmente stroncava, a colonne infuocate, credendo forse di scuotermi. Solo
anni dopo mi sono resa conto di quanto la sua venuta nella conformista,
annoiata IV C, sia stata in qualche modo il prologo di quello che sarebbe
avvenuto dopo, almeno nella mia vita. Ma confesso di averlo in qualche momento
detestato, lui, il professore: era troppo per me, io ero pigra, lenta, e la
furia delle sue parole, il suo impeto, invece di spronarmi mi rendevano ancora
più pigra e maldestra. Ma aveva piantato in me piccoli semi di consapevolezza e
ribellione, che non hanno tardato a dare i loro frutti. E di questo io gli sarò
per sempre grata.
Primo frutto: i viaggi.
Io e Lena, la mia inseparabile
amica, siamo state le prime a Terracina a viaggiare in auto-stop. Anche lei
aveva perso il padre da poco e la nostra condizione di orfane forse ci aveva
reso più temerarie e curiose: niente o nessuno ci poteva fermare, neanche le
nostre madri, piuttosto preoccupate. Abbiamo girato in lungo e in largo per il
Sud (Puglia, Calabria, Sicilia, più volte la Sardegna che era la
nostra preferita), chiedendo passaggi ad automobilisti sempre gentilissimi e a
qualche camionista che ci caricava su volentieri per fare il viaggio in compagnia.
Alloggiavamo quasi sempre negli ostelli e, con i pochi soldi guadagnati
lavorando come baby sitter o commesse,
facevamo viaggi lunghi mai meno di un mese. Allacciavamo amicizie, che
sarebbero poi durate anni, con molti degli improvvisati compagni di viaggio che
si univano a noi lungo il percorso. Ci è
capitato di dormire in stazioni, tipografie, case diroccate, garage, spiagge,
giardini pubblici, infilate nei nostri sdruciti sacchi a pelo a mummia. Il mio
era rosso, a fiorellini, l’avevo comprato a Porta Portese. Non ci è mai
successo niente di spiacevole, a parte quella volta che a Cagliari ci siamo
beccate le pulci. Probabilmente eravamo temerarie e prudenti nello stesso tempo
e riuscivamo a schivare le situazioni e le persone pericolose. Ma l’imprevisto,
la sorpresa, l’avventura, erano sempre dietro l’angolo. E non abbiamo mai avuto
paura. Ci lasciavamo guidare da una fiducia illimitata nella vita, nella gente,
nella natura, che probabilmente ci ha sostenute e protette. Non potrò mai
dimenticare il profumo della macchia mediterranea quando stanche, dopo una
notte insonne sul ponte della nave, sbarcavamo a Golfo Aranci, con gli zaini
sulle spalle carichi fino all’inverosimile e lo sguardo acceso di stupore e
meraviglia davanti a tanta bellezza: nell’aria tersa dell’alba tutto era rosa,
nitido, perfetto. Se dovessi scegliere un’istantanea, solo una, per ricordare
quegli anni, sarebbe questa.
Secondo frutto: l’indipendenza.
Nel ’72, dopo gli esami di
maturità, avevo deciso di trasferirmi a Roma per iscrivermi a Scienze
Politiche. Ma qualcosa non mi convinceva del tutto. Avevo voglia di allargare i
miei orizzonti. Una telefonata di Alberto e Augusto, miei compagni di liceo, ha
tagliato la testa al toro. Stavano andando a Firenze per iscriversi all’Università.
Dopo una notte intera a parlare con mia madre, che ha avuto la generosità di
lasciarmi andare, sono partita con loro. In pochi giorni abbiamo trovato una
casa colonica in periferia e siamo
andati a vivere insieme. Io, sola con due ragazzi. Faceva tanto Jules e Jim,
anche se non c’era del tenero con nessuno di loro. La casa era freddissima,
grande, a due piani. Alberto aveva scelto la stanza al piano terra, che aveva
dipinto di giallo. Io quella al piano di sopra, che si affacciava sull’aia, con
le pareti di un arancione brillante. Augusto invece era andato a stare nella
stanza in fondo al corridoio e l’aveva pitturata completamente di nero,
compreso il grande soppalco. Fuori c’era un campo piantato a bietole e carciofi
e i vicini spesso ce ne regalavano grandi borsate. Io ero vagamente attratta da
Alberto. Era piccolo e mingherlino, con le lenti da miope che lasciavano
intravedere gli occhi grigio-azzurri e aveva delle dita lunghe e nervose che
muoveva con grazia mentre parlava con voce bassa e calma, di musica,
letteratura, arte, politica, cinema, e molto altro ancora. Aveva una cultura
incredibile per la sua età e io l’ammiravo tantissimo. Lo ascoltavo estasiata,
ma con lui non riuscivo a parlare.
Neanche al Liceo ci ero mai riuscita, ma in V, verso la fine dell’anno
scolastico, un giorno lui mi aveva proposto di iniziare uno scambio epistolare
e da quel momento il nostro legame, anche se sempre molto silenzioso da parte
mia, era diventato più intenso. Ancora le conservo quelle lettere (non riesco a staccarmi da certi ricordi!), a
qualcuna erano allegati dei cartoncini disegnati con la china e gli acquarelli.
Alberto sapeva fare tutto, disegnare, cantare, suonare. E imparava le lingue (
persino il polacco!) con estrema facilità. Io invece ero piuttosto insicura e
credevo di non essere capace a fare niente. Con Augusto invece chiacchieravo
molto, eravamo amici, spesso andavamo al cinema (Alberto rimaneva in casa a
leggere o a suonare), poi ha conosciuto una ragazza che studiava matematica e
da allora se ne stava interi pomeriggi rintanato con lei nella stanza nera ad
ascoltare la musica dei Genesis a tutto volume. Niente più cine.
Con l’arrivo di Angela, che si è
subito messa con Alberto, ormai si erano formate le coppie. Qualche malinteso,
cose di poco conto, esigenze diverse, e dopo un po’ le nostre strade si sono
divise. Abbiamo lasciato tutti la casa colonica.
Ho trovato un appartamento in
centro, nel quartiere di Santa Croce,
con delle tipe piuttosto squinternate. Avevo una stanza di passaggio, lunga e stretta, non c’era né doccia né bagno e allora andavo ai bagni pubblici dietro casa. Ricordo lo squallore: mattonelle bianche da obitorio, lampadine fioche, pulizia approssimativa, qualche barbone con le buste di plastica che aspettava il suo turno. All’ingresso mi davano una saponetta Lux e un asciugamano sdrucito, che io mi guardavo bene dall’adoperare. Poi entravo in una piccola stanza da bagno, mettevo i miei vestiti su uno sgabello, riempivo la vasca dallo smalto scrostato e me ne stavo immersa nell’acqua calda fino al collo per una buona mezz’ora. Ecco, quello era un lusso che mi concedevo una volta a settimana.
con delle tipe piuttosto squinternate. Avevo una stanza di passaggio, lunga e stretta, non c’era né doccia né bagno e allora andavo ai bagni pubblici dietro casa. Ricordo lo squallore: mattonelle bianche da obitorio, lampadine fioche, pulizia approssimativa, qualche barbone con le buste di plastica che aspettava il suo turno. All’ingresso mi davano una saponetta Lux e un asciugamano sdrucito, che io mi guardavo bene dall’adoperare. Poi entravo in una piccola stanza da bagno, mettevo i miei vestiti su uno sgabello, riempivo la vasca dallo smalto scrostato e me ne stavo immersa nell’acqua calda fino al collo per una buona mezz’ora. Ecco, quello era un lusso che mi concedevo una volta a settimana.
La mia quota per l’affitto era di
12.500 lire, per un pasto alla mensa ne spendevo 300, il biglietto del cinema
costava 150 Lire. Spesso passavo le serate in un cinema d’essai che si chiamava
Alfieri a fare scorpacciate di film meravigliosi. Proprio lì credo, in quel
cinema fumoso e freddo, è nata la mia grande
passione per il cinema. Un mese fa, a Firenze, mi hanno detto che
l’Alfieri è stato chiuso e che probabilmente al suo posto verrà aperto un
super-mercato.
Una delle mie coinquiline era
inglese, si chiamava Pamela Smith (nome molto originale per un’inglese!) e
stava con un ragazzo pugliese che, quando facevano l’amore, lanciava delle urla
pazzesche. Lei usciva dalla stanza solo per farsi lo shampoo due volte al
giorno (aveva i capelli che grondavano olio!) e per riscaldarsi una minestra
Campbell sempre nello stesso pentolino di smalto, che non sciacquava mai.
Nel frattempo io avevo trovato
lavoro come baby sitter e dato i primi esami.
Ormai la stanza di passaggio era
diventata un incubo. E una delle mie compagne di casa aveva avuto una bambina e
stava per sposarsi. Ho traslocato di nuovo, sempre in Santa Croce, in una casa
molto carina, ma senza riscaldamento. Ecco, un altro ricordo di quegli anni è
legato al freddo che ho patito. Così tanto da ammalarmi un inverno, in maniera
piuttosto grave.
Per un po’ sono stata da sola,
poi è venuta a vivere con me una mia compagna di facoltà, di San Gimignano.
Davo esami su esami e sono riuscita ad ottenere il pre-salario. Mangiavo tutti
i giorni alla mensa universitaria e per vestire non spendevo quasi niente
(eskimo, zoccoli, borse di cuoio della Tolfa e maglioni slabbrati) e ogni volta
che uscivo con mia madre lei mi diceva con voce tremante. “ Ma dimmi Elvira, lo
fai apposta, vero, a vestirti così…. per mettermi a disagio….?”.
Nel ’76 ho iniziato una storia
con Pantazis, un ragazzo greco che studiava Architettura. Lui è venuto subito a
stare da me, occupando quasi tutto lo spazio della mia stanza con il suo enorme
tavolo da disegno. Abbiamo adottato un bastardino nero di nome Ugo, che ci
portavamo dappertutto, all’Università, alla Mensa e nei nostri numerosi viaggi
in Grecia. Per tre anni, finché è durata la nostra convivenza, non ho
praticamente dormito. E non ho messo mano alla tesi. Pantazis aveva l’hobby
della fotografia e passavamo le nottate a
sviluppare e stampare foto nello sgabuzzino che avevamo trasformato in
camera oscura. Io gli facevo da modella, abbiamo vinto anche qualche premio.
Una volta siamo andati per una premiazione a Boves, un bellissimo paesino sulle
colline in provincia di Cuneo, ricordo che avevamo partecipato con delle foto
molto intense in bianco e nero, in quella che ha vinto c’ero io seduta a una
scrivania con dei libri sopra e una scritta:”E DOPO?”. Naturalmente ci ponevamo
il problema del dopo Università, ma in maniera scanzonata e allegra, un po’
incosciente forse, ed eravamo comunque fiduciosi che avremmo trovato la nostra
strada e realizzato i nostri sogni.
Di tutte quelle foto purtroppo me
ne sono rimaste poche. Ne ho una, incorniciata in salotto, è del mio seno.
Sembra una scultura, per via delle ombre e del chiaro scuro. Un piccolo vezzo
per ricordare la mia gioventù.
Terzo frutto: la politica.
Contagiata dai fermenti di quel
periodo, avevo deciso, sfidando la mia insicurezza, di fare anch’io attività
politica. Una mattina mi sono presentata timidamente alla segreteria della
sezione del PCI dietro casa mia. Una ragazza piuttosto antipatica mi ha fatto
il terzo grado. Voleva sapere tutto di me. Mi ha chiesto quando avevo avuto “la
chiamata”. Comunque le devo essere piaciuta perché mi ha detto di presentarmi
la domenica successiva per la distribuzione dei giornali. E per un bel po’ di
tempo ogni domenica mattina ho fatto
rampe e rampe di scale nel quartiere di Santa Croce, fra case maleodoranti e
palazzi principeschi, per distribuire l’Unità. C’è stata poi la parentesi della “Scuola di Partito”, che è durata solo
un inverno. Ci incontravamo nella Casa del Popolo di Piazza de’ Ciompi. Una
volta ci ho portato anche mia madre, che ci si è trovata subito a suo agio, forse più a mio agio di me. Ma poi la cosa è
andata scemando ed è finita lì.
Ogni tanto arrivava da Terracina,
per partecipare a qualche congresso del PCI, il nostro amico Vincenzo, che
eravamo orgogliose di ospitare nello sgabuzzino senza finestre che avevamo
adibito a stanza degli ospiti, fra scarpe, valigie e giornali vecchi. E in
quello stanzino buio e umido abbiamo ospitato per lunghi periodi amici senza
casa o semplicemente di passaggio.
Durante il festival Nazionale
dell’Unità del ’75, alle Cascine, io e Lena, che nel frattempo mi aveva
raggiunta a Firenze, abbiamo preparato per i compagni centinaia e centinaia di
panini con i wurstel. Ricordo l’allegria e lo spirito di solidarietà, ore e ore
in piedi, vicino al fuoco, a ridere e scherzare. Mi sentivo importante, un
piccolo tassello in un mosaico colorato e brillante ed ero piena di energia,
avevo tutta la vita davanti. Il mondo stava cambiando e noi eravamo gli attori
principali di quel cambiamento. Ricordo la folla durante il meraviglioso
concerto di Fabrizio de Andrè. E poi, l’anno dopo, gli Inti Illimani in Piazza
Signoria. E Woodstock ’79 nel prato grande delle Cascine, con la voce roca di
Joe Coker. Brividi sulla pelle, partecipazione, emozione pura.
Quarto frutto: il femminismo.
Avevamo messo su, io e alcune amiche, un collettivo femminista che si riuniva a
casa mia. Ci vorrebbe un romanzo per descriverlo nei dettagli, e forse lo
scriverò ( ho già 3 capitoli pronti!). Come pure richiederebbe molte pagine il
capitolo sulla psicoanalisi, che avevo iniziato con una terapeuta bionda e
anziana, dagli occhi di ghiaccio.
Ricordo le lunghe riunioni di
auto-coscienza con le mie compagne, ma soprattutto la complicità, la
solidarietà, il sostegno. Quella che poi è stata definita con una parola molto efficace “sorellanza”. Due delle mie
amiche le ho ritrovate quest’anno. Pianti e abbracci. Stupore. Non siamo
cambiate molto, qualche sogno frantumato, qualche amore disastrato, ma lo
stesso sguardo limpido e fiducioso. E quell’aria da ragazze appena un po’
invecchiate, che in qualunque posto ci
permette di riconoscerci, come se fosse quasi una parola d’ordine.
Quella è stata l’ultima estate di
Ivetta. Sono contenta che l’abbia passata insieme a me.
Che strano, me ne sto rendendo
conto solo adesso che ne scrivo, la morte violenta ha segnato per me l’inizio e
la fine degli anni ‘70. Chissà che cosa vorrà dire.
Ci devo pensare.
La morte di Ivetta è stata un
terribile shock che però mi ha spinta a cambiare molte cose. Dopo un paio
di mesi ho lasciato Pantazis e la
terapeuta dagli occhi di ghiaccio e sono andata a vivere per un anno a Parigi
con il mio futuro marito peruviano. Sono tornata a Firenze per discutere la mia
tesi su Cuba e, dopo appena cinque giorni, sono partita per il viaggio in
America Latina che mi avrebbe cambiato la vita.
Ma questa è un’altra storia.
Mia figlia, che come quasi tutte
le ragazze della sua età, viaggia con il trolley, con l’iPod e il cellulare,
ogni tanto mi dice: “Beata te, mamma, che hai vissuto la giovinezza in quegli
anni!”.
E io sento che ha ragione. E’
stato bellissimo, faticoso forse un po’, ma entusiasmante. E io sento,
nonostante i miei 55 anni appena compiuti e problemi e vicissitudini di tutti i
tipi, che quella ragazza degli anni ’70, piena di sogni, viaggiatrice
dell’anima, curiosa e un po’ naif, è ancora dentro di me. E qualche volta mi fa
da maestra.
Nel 94 ho deciso di tornare a
vivere a Terracina dopo 22 anni. Avevo bisogno di ritrovare le mie radici e la
mia appartenenza. E di vedere il mare e le isole dalla finestra.
Ho scoperto che, dopo tanto
viaggiare, Terracina è il posto al mondo che io amo di più.
Ogni volta che torno da fuori e
vedo in lontananza il Tempio di Giove, mi commuovo. Ma a vent’anni ho fatto
bene ad andarmene. Di questo sono sicura. E tornare è stato bello.
Il professore l’ho incontrato un
anno fa sul treno per Roma. Non lo vedevo dal ‘72. L’ho riconosciuto subito,
dalla voce. Era allegro e pieno di energia. Stava andando con alcune colleghe
all’Eliseo. Non è invecchiato quasi per niente.
Il cuore ha iniziato a battermi
forte. Avrei voluto salutarlo. E anche ringraziarlo. Per i semi che ha piantato
nella mia vita. E scusarmi per averlo detestato, qualche volta.
Scendendo dal treno i nostri
sguardi si sono incrociati per un attimo. Ma non gli ho detto niente.
E lui non mi ha riconosciuta.
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