Si alzò dal letto e scivolò silenziosa fuori dalla stanza dove dormivano
le sue compagne Il buio era appena rischiarato dal riverbero della luna. Pace
perfetta. Nella corte scricchiolio di ghiaia e dopo pochi metri il sentiero, morbido, di terra battuta. Ai
lati bordature profumate di lavanda. Anche se era quasi la fine d’agosto era
ancora fiorita e al massimo della sua fragranza. Lei camminava lentamente,
assaporando il tocco del piede sul terreno, sentendo le piccole asperità di
pietra che formavano scalini appena scoscesi, passo dopo passo, elegante,
austera nella sua semplicità. Poteva godersi la gioia di quel camminare senza
fretta, senza affanno. Camminare semplicemente per camminare. Ed essere
presente con il corpo e con la mente, non proiettata nel futuro o rivolta al
passato, ma lì in quel giardino, in quella notte di fine estate, in quel
monastero dove aveva scelto di trascorrere alcuni giorni per prendersi cura di
sé. La camicia da notte leggera e bianca
le creava intorno al corpo una nuvola di purezza e di candore, che dava al suo
passaggio una parvenza quasi di irrealtà. Creatura notturna, angelica,
misteriosa. E, passo dopo passo, arrivò al campo degli ulivi. Ulivi giovani ed
esili, appena contorti, con le braccia dei rami protese verso un cielo blu
cobalto punzecchiato di infinite stelle. Il bello della notte e dell’oscurità
perfetta, che ti fa affinare i sensi, ti fa vedere al buio occhi luminescenti
di gatto, guizzi improvvisi, saltelli sui cespugli. E sentire gli odori,
rinfrescati e acuiti dall’umidità della rugiada. Era possibile distinguerli,
uno a uno, in una specie di inventario profumato e magico, lasciandosi poi
sopraffare dall’alchimia che li univa tutti insieme in una fragranza unica, per
scomporli di nuovo, come in un gioco. Su tutti prevaleva il profumo della
lavanda, appena un po’ amaro all'inizio e
via via sempre più dolce e frizzante nel naso. E poi l’odore di terra,
più asciutta nel pendio e più grassa lungo il sentiero. E di erba fresca e umida,
verde anche nel respiro, inebriante. E di quella secca, quasi di fieno, su
verso la collina. Il profumo del mirto, appena aspro, e quello del lentisco,
suggerivano la vicinanza del mare, a pochi chilometri. Soffermandosi ad
annusare il vento tiepido si poteva avvertire il sale e quasi sentirlo sulle
labbra. Le rose, quelle gialle, erano quasi sfatte, ma i petali caduti ne
conservavano l’essenza profumata di vaniglia.
Le rose in città non profumano
più e sembrano finte, questo lei pensò, assaporando con ancora più pienezza
quella meraviglia. I grilli si alternavano nel canto a qualche cicala
ritardataria. E poi fruscii, richiami di uccelli notturni, battiti d’ali, un
gracidare lontano, giù dallo stagno. Rifece il cammino inverso, sfiorando con
le dita le inflorescenze di lavanda. A tratti i rumori si fermavano
all’improvviso e le sembrava di entrare in una bolla di silenzio. Era allora
che i profumi diventavano ancora più intensi e gli altri sensi si acuivano,
come a voler bilanciare quell’assenza di suoni, con una vista più acuta, che
quasi vedeva oltre la notte, un odorato più sveglio, a caccia di tracce
profumate, un tatto pronto a cogliere la morbidezza, la rugosità, la
freschezza, l’umido, il secco di quella natura. La notte si era fatta ancora più
scura e l’aria più fresca. Si avvicinava l’alba. Si fermò per qualche istante
ad abbracciare il grande pino marittimo, il viso appoggiato alla corteccia
ruvida e profumata di resina, le braccia intorno al tronco, solido ed elegante
nello stesso tempo. E, prima di rientrare nel dormitorio, rivolse un ultimo
sguardo al giardino, per poterlo portare con sé nel sonno e farlo germogliare
come seme fertile e buono. Quella pausa rigenerante avrebbe reso il suo riposo
ancora più profondo. Sotto il cuscino avrebbe messo un mazzetto di lavanda. L’indomani sarebbe stata una bellissima giornata.
Nel cielo neppure una nuvola.
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