La prima è morta a 55 anni sotto i
bombardamenti, 4 giorni prima dell’armistizio. I caccia americani sono arrivati
dal mare, distruggendo in pochi minuti buona parte della città vecchia e
uccidendo circa 200 persone, soprattutto donne e bambini. Lei si chiamava
Elvira e faceva la sarta.
Mi hanno dato il suo nome.
La seconda moglie si chiamava Cristina e
abitava a Taranto, dove lui era capitato dopo lo sfollamento. Era un po’
strana, taciturna e piena di tic. Lui l’aveva conosciuta tramite un sensale.
“Mi raccomando, che sia vergine” gli aveva chiesto. E Cristina rispondeva alla
richiesta. Solo che era piuttosto attempatella, appena sotto i cinquanta, lunga e secca,
con spesse lenti da miope. Mio nonno con lei era protettivo e tenero. Ma dopo
pochi anni le fissazioni erano aumentate, le era venuta la fobia del cibo,
aveva paura che dentro ci fosse del veleno. E aveva preso a non lavarsi più. Se
ne stava rannicchiata in un angolo, sudicia e spettinata, dondolandosi con una
nenia da bambina. L’hanno ricoverata una mattina a S.Maria della Pietà, lì a
Roma, dove erano andati ad abitare dopo la fine della guerra. E poi sono venute
le sorelle per riportarla a Taranto.
Mio nonno è rimasto solo. I suoi cinque
figli erano sparpagliati un po’ dappertutto: la più vecchia si era trasferita
in Venezuela, uno abitava a Roma, uno, quello che si era fatto una posizione, a
Torino, mio padre, il maschio più piccolo, cambiava lavoro e città di continuo,
l’ultima, la femmina, era rimasta a vivere a Terracina.
Intanto gli anni passavano.
Non so come abbia incontrato Tania. Era
un’anziana signora, molto distinta, che discendeva da una famiglia altolocata,
si diceva che fossero Conti. Un palazzotto nel centro storico della nostra
piccola città porta il suo cognome. Fra mio nonno e Tania è nato un amore.
Hanno preso casa a Roma, a Centocelle, in Via dei Castani. Io credo che per lui
quelli siano stati gli anni più belli. Lei lo accudiva come un principe. La
casa era accogliente e luminosa e Tania si dilettava a preparare ogni giorno
manicaretti diversi. “Cicci, cosa vuoi che ti prepari oggi?” gli diceva con un
sorriso prima di uscire a fare la spesa. Lei aveva un solo figlio che si chiamava
Raoul e che aveva preso ad amare mio nonno come un padre. Il mio zio di Roma però
non approvava. Era disdicevole una cosa del genere, a quell’età una relazione,
ma che diamine, ci vuole un po’ di ritegno! Mio nonno soffriva molto per questa
cosa. Lui Tania avrebbe voluto sposarla (Cristina nel frattempo era morta), in
modo da lasciarle la pensione il giorno che se ne fosse andato, perché era
nell’ordine delle cose che lui se ne andasse prima di lei, visto che aveva
quasi 10 anni di più. Ma il rifiuto di quel figlio lo tratteneva. E d’altra
parte Tania era discreta e non insisteva più di tanto:
“Non ti preoccupare Cicci, l’importante è
che noi continuiamo a volerci bene”.
E intanto continuava a preparagli
crostate e torte di mele.
Poi lei si è ammalata. Niente di grave,
doveva fare un piccolo intervento all’utero. Prima di andare all’ospedale ha
lasciato il freezer pieno di polpette, arrosti, sughi, verdure lessate, tutti
in contenitori monodose avvolti nella carta stagnola, che sembravano gioielli luccicanti.
La convalescenza è stata più lunga del
solito. Tania è dovuta andare a casa del figlio e della nuora per essere accudita. Mio nonno è tornato a
vivere qui a Terracina, nel quartiere “Capanne”, in una piccola casa vicino a
quella di mia zia che ogni giorno gli portava il pranzo e la cena in piatti fumanti. Una
donna gli faceva le pulizie un paio di volte a settimana.
Ma mio nonno era triste. Gli mancava
Tania.
Al telefono si erano sentiti solo poche
volte. Lei con la voce stanca gli aveva detto:
“Cicci non ti preoccupare, fra poco
staremo di nuovo insieme”.
Nel frattempo lui si era preso una
cagnolina di nome Lola. Era una volpina bianca, bruttina e strabica, che
abbaiava di continuo, ma lui l’accudiva con dedizione e amore e la portava a
passeggio tutti i giorni nella pineta vicino al mare.
Io spesso lo andavo a trovare. Indossava
camicie bianche dal colletto immacolato. Io me lo ricordo da sempre senza un
dente in bocca, completamente sdentato, con gli occhi azzurri e umidi che si
asciugava di frequente con un fazzoletto bianco. E ricordo il suo odore. Sapeva
di legno, di bosco, di terra buona. E io mi stupivo nel vedere come il suo
collo fosse solcato da infinite rughe che si intersecavano a formare rombi e losanghe fin dietro la nuca.
Da piccola ci mettevo le dita dentro a quei solchi morbidi, sembravano velluto.
Sul comò, in camera da letto, aveva
allestito una specie di altarino sul quale troneggiavano le foto di mia nonna,
di Cristina e di mio padre, morto in un incidente automobilistico. Non credo
che fosse religioso, ma lui i suoi morti voleva tenerseli lì vicino a sé, per
sentirsi meno solo, così diceva.
Una mattina ha telefonato Raoul in
lacrime:
“Mi raccomando, diteglielo con tatto: mia
madre è morta stanotte”.
Il compito spettava a me e mia madre.
Quando mio nonno è venuto ad aprirci la porta ha subito capito.
“E’ morta, vero? Lo sapevo, ho fatto un
sogno”.
E sull’altarino c’era già la foto di
Tania, sorridente, vicino a quella delle altre due mogli.
Mio nonno è vissuto ancora un paio d’anni.
Una quercia, sempre più rugosa e odorosa di muschio.
Se n’é andato in fretta, dopo una sola
notte inquieta. A raggiungere le sue tre donne. Che ha amato, ognuna in maniera
diversa, con devozione e rispetto.
Ma la più amata, io credo, la più dolce,
è stata Tania.
La terza moglie, quella che non ha mai
sposato.
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