Quando un amico mi ha parlato di Salina Cruz, non
ho potuto fare a meno di ricordare. Che strano, dopo più di trent’anni basta
girare un interruttore e il ricordo appare, nitido e colorato, come se nel
frattempo non fosse successo niente e non fosse passata una vita. A quel posto
non ci avevo più pensato. Troppo brutto. Troppo caldo. Troppo lontano dalla
bellezza che avevamo attraversato e che ci avrebbe accompagnato per il resto di
quel viaggio.
Siamo arrivati a Oaxaca nel Maggio dell’81,
dopo
alcuni giorni trascorsi a Città del Messico e un paio di notti a Vera Cruz, città insopportabilmente afosa. Il
viaggio era appena cominciato. Sarebbe durato 18 mesi. Oaxaca ci piacque
subito. Prima di tutto era fresca e poi tranquilla, dopo la bolgia di Mexico
City. L’albergo era carino, si chiamava Hotel Principal. Era coloniale, con il
patio interno e le stanze dai mobili scuri. La notte eserciti di cucarachas
sbucavano dagli interstizi, veloci come la luce. Dopo un raccapriccio iniziale,
in poco tempo mi ci abituai. Facevo finta di non vederle e, unica precauzione,
scuotevo le scarpe prima di mettermele. Dionisio abitava nella stanza accanto
alla nostra. Era un indio zapoteco, basso e dai lineamenti marcati, grande
bocca e naso da pugile. Brutto, molto
brutto. Ma quando parlava restavi incantato. Lui era di Salina Cruz, ma viveva
lì da un po’ di tempo, stava scrivendo un libro di poesie. Dionisio era un
poeta. Lui e Alberto fecero subito amicizia. Parlavano e bevevano birra nel
patio, mentre io riposavo dopo i lunghi giri per la città. Ancora non capivo
completamente il castigliano, stavo imparando, e quel parlare fitto fra uomini
mi faceva sentire un po’ esclusa. Ma anch’io mi ero fatta un’amica, Olivia, una
ragazza fiorentina di 18 anni, scura e piccola come una india, con le treccine attorcigliate intorno alla testa. Viveva nella
stanza più grande dell’albergo, con suo padre pittore, che stava dipingendo dei
murales in una chiesetta del luogo. Una sera andammo a cena tutti insieme in un
locale caratteristico che si chiamava “El sol y la luna”. C’era anche Arlette, un‘antiquaria
francese che viveva a N.York. Era venuta lì a comprare da un’artigiana del
luogo, che si chiamava Teodora, delle preziose ceramiche nere, fatte con un
sistema di cottura che risaliva agli atzechi, che avrebbe pagato pochi soldi
per poi venderle nel suo lussuoso negozio di Manhattan a un prezzo salatissimo.
Arlette era una donna sui quaranta, molto femminile, capelli a caschetto,
sguardo vivo e un corpo minuto che muoveva con eleganza. Dionisio non le
toglieva gli occhi di dosso. La notte sentimmo lui e Arlette fare l’amore nella
stanza accanto fino all’alba.
Una sera Dionisio, mezzo brillo, ci declamò in
piedi su uno dei tavoli de “El Sol y la
luna”, una poesia sulla sua bambina che viveva a S. Francisco. Fu in quel
momento, guardando quel piccolo poeta zapoteco sciogliersi in lacrime mentre ci
raccontava lo struggimento della lontananza, che sentii forte dentro di me il
desiderio di iniziare a scrivere poesie.
La calma di quei primi giorni a Oaxaca, fu in qualche modo interrotta da un
avvenimento spiacevole. Un pomeriggio, mentre vendevamo la nostra mercanzia (orecchini,
foulards, cravatte di seta) fummo fermati da due poliziotti che ci fecero passare
l’intera notte nell’ufficio di polizia locale, fra spacciatori e prostitute
bambine, dando ogni tanto una toccatina alla pistola che tenevano a guisa di
cow boys in un fodero attaccato alla cintura. Ci sequestrarono la merce e ci
estorsero gli unici dollari che avevamo, circa una sessantina. Per fortuna in
albergo ci erano rimaste una ventina di cravatte. Dionisio la mattina dopo ci
accompagnò in Tribunale, un grosso edificio rosa brulicante di gente e, dopo
un’oretta, le aveva già vendute tutte, a 10 dollari l’una, ai suoi amici impiegati,
archivisti o giudici. Lui tenne per sé una cravatta rossa, con un piccolo
giglio di Firenze ricamato sopra. Quella cravatta rese l’amicizia fra lui e
Alberto quasi indissolubile. Una sera, dopo la 5a birra, con gli occhi lucidi,
quasi abbracciato ad Alberto (se non avessi sentito con le mie orecchie le sue
prodezze da amante avrei pensato che era innamorato di lui!) ci disse: “Quando
andate via da qui fermatevi a Salina Cruz, vi do le chiavi della mia stanza. Mi
casa es tu casa, hermano!” e via con la 6° birra! Guardammo sulla nostra “Guide
du Routard”, Salina Cruz era citata solo come una cittadina di passaggio.
Nessuna rovina, nessuna attrattiva, niente. Arrivammo di sera tardi. Non sapevano
del nostro arrivo, “el poeta” non li aveva avvertiti. Ci accompagnarono alla
stanza, ubicata in una piccola dependance affacciata sul patio, guardandoci in
cagnesco mentre aprivamo la porta con la chiave di Dionisio. La stanza era in
completo abbandono: un letto matrimoniale sfatto chissà da quanto tempo,
lattine di birra vuote, piante secche, posacenere colmi di cicche, biancheria
sporca. Ormai era notte, la prima corriera ci sarebbe stata solo la mattina
dopo, dovevamo fermarci lì. Il bagno era nel patio. C’era solo il wc e una
grande vasca-serbatoio colma d’acqua, per versarcela addosso i soliti gusci di
noce di cocco. Non osai lavarmi i capelli e poi avevo finito lo shampoo. Uscimmo
a cercare qualcosa da mangiare. Trovammo solo un Mc Donald e ordinammo due
enormi cheese burger e una birra. La città era deserta, tutti i negozi chiusi,
solo il neon di qualche vetrina di abbigliamento, con abiti alla moda (!) su
manichini con la parrucca bionda. Un’unica cafeteria, piena di uomini. Vecchie
Cadillac piuttosto malandate parcheggiate lungo le strade. In lontananza, le
ombre di piccole colline secche. Dove eravamo capitati?. E perché Dionisio, che
aveva nel cuore la bellezza, ci aveva spinto a venire in un posto tanto brutto?
La notte non chiudemmo occhio. Un’afa umida e appiccicosa avvolgeva la stanza,
nonostante le finestre spalancate dalle quali, attraverso le zanzariere
strappate, entravano a frotte le zanzare. Ci ronzavano a famiglie sulla faccia.
Alberto si era messo un foulard di seta sul viso, io il lenzuolo, ma le puttane
ci entravano nelle orecchie, fra i capelli, ci pungevano attraverso la seta e
la tela ruvida del lenzuolo. Un incubo. Non c’era neppure un goccio d’acqua da
bere, solo una mezza lattina di coca cola tiepida, che razionammo a sorsi
infinitesimali, fino all’alba. Non avevamo scampo. Bisognava aspettare il
giorno e scappare via da lì, da quella brutta stanza di quella brutta città che
si chiamava Salina Cruz e non aveva motivo di esistere. Il resto del viaggio,
dopo una nottata così, fu una meraviglia. Dionisio non l’abbiamo più rivisto. Ho
cercato il suo nome su internet. E’ diventato un poeta famoso. Chissà se quella
poesia triste sulla sua bambina è stata mai pubblicata. Io spero di sì, perché
era bellissima.
La notte più calda
a Salina Cruz
a casa del fratello del Poeta
andate pure
ci aveva detto Dionisio
mi casa es tu casa
grato per la cravatta
che gli avevamo regalato
ma non era vero
ci hanno dato una stanza
in disordine
libri dappertutto
e riviste impolverate
il letto era sfatto
le zanzare scendevano in picchiata
cercavamo di ripararci la faccia
ma ci pungevano le orecchie
la notte più lunga
senza refrigerio
senza acqua
al mattino un saluto svelto
e via verso lo Yucatan
quando il sole era già
alto
su un autobus di lusso
con l’aria condizionata
abbiamo dormito fino
all’arrivo
altri colori
ancora più brillanti
di mais umido di pioggia
e chiese azzurre e viola
da aggiungere
alla tavolozza
era l’inizio
di una nuova storia.
Nel frattempo
persone tante
uomini e donne
coppie e amanti
bambini e forse cani
raramente gatti
hanno dormito in quelle stanze
nulla è rimasto fermo
neanche una cesura
un’assenza di respiro
un errore di secondi
dimenticati dal tempo
niente di tutto questo
l’Hotel Principal
ha continuato a vivere
senza di noi
le nostre valige
trasportate altrove
in altri viaggi
le nostre vite a zonzo
ombre liquefatte
ormai separate da due mari.
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