Qualche anno fa per il mio compleanno mi sono fatta un regalo speciale. Sono andata a Napoli a vedere la mostra di Louise Bourgeois al Museo Nazionale di Capodimonte. Sono stata ospitata da una mia cara amica che ha una casa bellissima che si affaccia su Piazza Plebiscito e mi sono concessa delle meravigliose colazioni al Gambrinus, bar storico che ogni volta mi emoziona. Come pure mi emozionano la gentilezza e il calore dei napoletani, che mi fanno sentire subito a casa, in una casa caotica e rumorosa, ma vitale e generosa, buona. A Napoli gli uomini sono gentili e hanno quel comportamento un po’ cavalleresco che da ormai da tempo viene piuttosto trascurato. E per la strada, anche se non sei più giovane, ti guardano e ti sorridono. Ho atteso l’ultimo giorno per andare a visitare la mostra. Era da tanto che aspettavo un occasione del genere, Louise era quasi centenaria e volevo vedere le sue opere prima che lei se ne andasse, per trasmetterle la mia ammirazione e il mio affetto, che sicuramente, lo sapevo, in qualche modo invisibile e misterioso, le sarebbero arrivati. Quel 3 dicembre era una giornata fredda e piovosa. Il museo era deserto, eravamo solo tre visitatori. Dopo pochi minuti ci siamo dispersi per le sale e io mi sono trovata tutta sola, a parte qualche raro e distratto custode, a tu per tu con le opere del mio mito. Nell’atrio un enorme ragno di ferro.
Un’opera possente e nello stesso tempo delicata. E via via nelle varie sale, in un progetto estremamente visionario e coraggioso, la modernità delle installazioni, delle forme, dei tessuti strappati e solcati, dei falli appesi, delle maschere, dei manichini, delle gabbie di ferro, contrapposti ai dipinti di Caravaggio, Pollaiolo, Raffaello, Tiziano e molti altri pittori, in un contrasto apparentemente provocatorio e dissacrante che spiazzava e mi provocava un tuffo al cuore. Ho vagato come in trance per quelle sale, sola, sembrava quasi un film. Tanta modernità e tanta classicità in una sede di per sé meravigliosa, nel silenzio totale, nello spazio vuoto, ormai abituata a mostre sovraffollate. Un sogno, un miracolo. In una sala enorme, dove ho immaginato si svolgessero delle grandi feste, con danze e musiche, non ho potuto fare a meno di mettermi a ballare. A occhi chiusi ho danzato, come rapita da quell'atmosfera, sperando che il custode nella sala adiacente non se ne accorgesse.
Ma i miei passi erano delicati e silenziosi e comunque sapevo che un’occasione come quella non mi sarebbe mai più capitata nella vita, mai più. Estasi, commozione, gratitudine. Un bel regalo, veramente. E Louise Bourgeois era lì con me, con tutta la sua energia, la sua rabbia, e il suo sorriso buffo da bambina. Nella sua casa atelier di N. York ha accolto fino all’ultimo i giovani artisti che volevano imparare da lei il segreto della sua forza e della sua enorme creatività. E il segreto stava lì, nel suo dolore, che doveva essere vivisezionato, rappresentato, sublimato. Il dolore di un tradimento vissuto da bambina. Suo padre era diventato l’amante della nurse e sua madre, che lo sapeva, non aveva saputo impedire che la menzogna e la finzione si impadronissero di quella casa e di quella famiglia all’apparenza così per bene, così borghese. E Louise per tutta la vita ha dovuto combattere contro quella menzogna, per non venirne sopraffatta. Il grande ragno era la madre, così ha raccontato lei, che tesseva la sua tela e non si preoccupava dei piccoli, rappresentati da piccole biglie di ferro. E tutta la sua arte è imbevuta di quel dolore antico, di quella rabbia, che lei ha saputo plasmare, a volte in maniera grottesca, in piccole opere, spesso a carattere erotico, e altre volte ingigantire a dismisura, creando dei mostri che incombono e non ci fanno certo distrarre dal dolore primario.
Eppure a vedere le sue foto, Louise Bourgeois ha un’espressione felice, il viso solcato da rughe infinite ha una bellezza infantile, come pure il suo sguardo, buffo, ammiccante, curioso, con una impercettibile vena di malizia. Louise è morta due anni dopo quella mostra. Le hanno dedicato una retrospettiva a Venezia, ma io non ci sono andata. Il ricordo delle sale deserte della Reggia di Capodimonte e di quel ragno nell’atrio, era dentro di me, al caldo, commosso, ben protetto e io non volevo confonderlo con altri ricordi.
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